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I miei ritmi, anche lontano dalla spesa
pubblicato su "il Corriere Fiorentino" il 4 gennaio 2012

La liberalizzazione del commercio, su cui si torna a discutere anche in Italia, sembra quasi un portato ineluttabile dell’attuale momento economico e del “mondo globale”: è un aspetto diffuso in tantissimi Paesi ed è anche una misura che probabilmente produce più consumi e dunque più lavoro. Ma non si può restare insensibili alle contraddizioni che tale misura, inevitabilmente, porta con sé e che non riguardano soltanto l’aspetto pratico (e sociale) del rischio di chiusura  per i piccoli esercenti che faticheranno a reggere il passo con i colossi della grande distribuzione. C’è anche un altro aspetto controverso: quello di carattere culturale. Rischiamo, infatti, di dirigerci verso un’accelerata “americanizzazione” o “taiwanizzazione” del nostro modo di vivere. Nessun anti-americanismo di maniera: solo una riflessione critica riguardo al meccanico avvicinamento a società in cui è talora impossibile distinguere tra la dimensione del lavoro e del consumo ed i momenti di pausa, di quiete, di confronto con se stessi. Senza dimenticare che – quasi per un riflesso condizionato – gli interessi di carattere culturale o artistico passano in secondo piano quando si è attratti dal richiamo ininterrotto dei consumi. Sono controdeduzioni non dettate da moralismo o da nostalgia per i ritmi di un mondo che non  c’è più, bensì da un’istanza di salvaguardia di ambiti preziosi dell’esistenza. Che valgono al di là del mutare delle situazioni storiche. Il richiamo che fece  già papa Wojtyla, tendente a preservare la distinzione fra il tempo per il lavoro e il tempo per il riposo e la meditazione ha un valore laico, non soltanto religioso. Il consumismo ed il liberalismo sfrenato, d’altra parte, portano (probabilmente) anche sviluppo economico, ma generano un modello di vita discutibile ed impongono un rapporto fra impresa e lavoro improntato alla sostanziale limitazione dei diritti. Prima della totale liberalizzazione del commercio, è più giusto discutere sulle possibilità di ampliare il calendario delle aperture, che va fatto “cum grano salis”, producendo le opportune modifiche che tengano conto delle esigenze della crisi economica e dei nuovi ritmi di vita dei lavoratori, ma allo stesso tempo preservino quegli spazi in cui i singoli individui e l’intera comunità possano ritrovarsi in pura gratuità, senza necessariamente occuparsi di merci ed oggetti. E’, questo, un elemento che l’“antropologia della crisi” deve tenere in attenta considerazione, pur nel delicato momento che stiamo vivendo, per ricercare fra le esigenze del tornaconto economico e quelle dell’autenticità umana un irrinunciabile punto di equilibrio.

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