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Tre libri e due paesi
(Testimonianze n. 437/2004)

Quando, in redazione, abbiamo iniziato a progettare questo numero della Rivista, su un punto nodale  si è registrato un accordo immediato: sull’uso del plurale per il titolo della sezione monotematica che avrebbe caratterizzato il volume.

Un plurale opportuno. E prudenziale
Fondamentalismi, appunto. Un plurale  opportuno e, insieme, prudenziale. Opportuno (e corretto): perché è ovvio, anche se si tratta di una di quelle ovvietà  non sempre  richiamate, che con un solo termine si indicano fenomeni tra loro abbastanza diversificati, nati e cresciuti in contesti storici, culturali e religiosi tra loro distanti e differenti; prudenziale (nel senso più responsabile e meno pusillanime dell’espressione): perché ci è sembrato importante operare una qualche distinzione  rispetto alla tendenza dominante che, espressamente o implicitamente, rinvia ad un sola accezione del concetto di fondamentalismo. Quella riferibile ai movimenti di matrice arabo-islamica. Che sono, innegabilmente, minacciosamente ed estesamente presenti sulla scena del mondo del dopo 11 Settembre. E che vanno adeguatamente analizzati e fronteggiati.
Ma che non rappresentano certo l’unica manifestazione di estremismo politico-religioso con cui sia necessario ed inevitabile fare i conti. Per questo, nelle pagine che seguono, che all’estremismo ed al terrorismo jihadista dedicano molto spazio, si parla anche di altro. Delle pulsioni fondamentaliste che albergano nell’ebraismo, ad esempio. Come non ricordare, infatti, pensando alla recente storia  della tormentata area israeliano-palestinese, il fanatismo assassino  di quel Baruch Goldstein che uccise un intero gruppo di arabo-palestinesi in preghiera sulla tomba del comune patriarca Abramo?
E come non riandare alla memoria della tragica scomparsa di Rabin (ucciso insieme al promettente processo di pace di Oslo), causata dai colpi di pistola di un giovane estremista di appartenenza e cultura ebraica? Per la coscienza  e la sensibilità ebraica fu un passaggio drammatico e lacerante.
Non c’è, non è male sottolinearlo, solo il fondamentalismo armato e violento di impianto terroristico. Ci sono anche le componenti di “intransigentismo” politico-religioso che operano nella legalità e partecipano al gioco democratico. Per rimanere al contesto ebraico-israeliano, i giornali ed i notiziari televisivi riportano, mentre vengono scritte queste riflessioni, la notizia della crisi del governo Sharon: una crisi aperta, all’interno della coalizione, dal partito laico centrista Shinui, scandalizzato da una sorta di “donazione” statale pari a circa 60 milioni di Euro per le attività del partito ultraortodosso della Torah unita. D’altra parte, è noto quanti elementi e motivazioni di carattere biblico-religioso vengano talora evocati dal movimento dei coloni che ha realizzato gli insediamenti nei territori palestinesi occupati e che si oppone ad ogni ipotesi di ridimensionamento o di smantellamento.

Un pullulare di sensibilità.
Ma  torniamo dal contesto mediorientale (in cui, per l’appunto, sul versante palestinese, uno degli ambiti storicamente connotati da maggiore “laicità” dell’intero mondo arabo-islamico, i movimenti del fondamentalismo armato hanno conquistato un vastissimo insediamento) ad osservazioni di carattere generale. Ed all’assunto di partenza, secondo il quale siamo in presenza di una forte varietà di fenomeni e movimenti e di un pullulare di variegate sensibilità e tendenze (violente, ma anche  non violente, accostabili fra loro per il piglio ideologico della rigida affermazione di principi indiscutibili) che vengono raccolti ed inglobati sotto la comune denominazione di “fondamentalismo”.  
C’è fondamentalismo e fondamentalismo. C’è il richiamo ai valori della famiglia e della morale cristiana, che ha avuto un ruolo notevolissimo (ce lo ricorda Florio) nella rielezione del
Presidente Bush. C’è anche (ha ragione Andrea Giuntini) l’unilateralità assertoria e sostanzialmente ideologica, dietro l’apparente carattere asettico ed ineluttabile delle dinamiche economiche, di una certa globalizzazione, del pensiero e della pratica del neoliberismo.
E ci sono, sul versante esattamente opposto, le negazioni neoideologiche della mondializzazione che spuntano, talora, come sterili infiorescenze nelle pieghe di movimenti in sé vitali, se capaci di puntare su una “buona globalizzazione “ e sulla diffusione planetaria dei diritti.
Non ha torto insomma chi invita a fare un’operazione di puntualizzazione terminologica, concettuale e storico-culturale per affrontare un fenomeno così complesso e tutt’altro che univocamente interpretabile. A partire dalle radici e dalle origini stesse del termine di cui qui ci occupiamo. Chi direbbe oggi, coinvolti emotivamente come siamo da quanto gli sconvolgenti eventi del mondo (l’11 Settembre, ancora, e in primis) ci pongono di fronte, che di “fondamentalismo” si iniziò a parlare, a suo tempo, in un contesto occidentale e cristiano (anzi, tipicamente wasp-white anglo-saxon protestant)? Eppure è nella battaglia evangelica antimodernista della destra cristiana sul finire del XIX secolo, negli Stati Uniti, che  il fenomeno emette i suoi vagiti. E’ in quel contesto che “serie sfide intellettuali erodono la fede nella Bibbia, mentre l’insegnamento superiore si regge sempre più su principi scientifici separati da ogni riferimento alla fede cristiana …”(1). Da qui la reazione: “In questo contesto appaiono, dal 1910 al 1915, dodici volumi intitolati The fundamentals”(2).
The fundamentals: eccolo il termine fatale. In origine, semplice denominazione di un’operazione editoriale a più mani (vi contribuiscono una quarantina di autori), da cui scaturisce però una forte
campagna “contro il modernismo nelle Chiese e contro l’insegnamento di teorie evoluzioniste nelle scuole”ed una forte e rinascente critica contro “il cattolicesimo romano”(3).
L’antimodernismo, come è noto, è un vento che spira molto forte anche in campo cattolico. E qui l’equivalente del “fondamentalismo” è, in un certo senso, l’“integrismo”. L’integrismo ha “nondimeno un diverso retroterra” anche se “è apparso all’incirca nella medesima epoca” e deriva “in parte da reazione analoga” (4). Quel che distingue, però, gli integralisti cattolici è la fedeltà, per l’appunto integrale, agli insegnamenti del pontefice romano.

Un implacabile spirito totalitario
I due termini, integrismo (o integralismo) e fondamentalismo sono oggi usati in maniera quasi indifferente e intercambiabile. E sono riferiti prevalentemente,  in maniera immediata e quasi istintiva, a quanto, con manifestazioni spesso  crude e truculente,  nel  variegato mondo islamico, si è andato sviluppando  di estremo e radicale: di estremo e radicalmente “antimoderno”, stavo per scrivere. Ma sarebbe, questa, una deduzione assai affrettata. E forse poco centrata. Il fondamentalismo islamico è, da un certo punto di vista assai moderno. Ha ragione, se ben capisco, Ragionieri. Vi è in esso una componente “transtemporale”  che convive con forme di paradossale (ed ideologicamente “antimoderna”) modernità. Sono “moderni” spesso non solo gli strumenti  (siti internet, strumenti  di comunicazione, armamenti…) ma anche, in un certo senso, gli obiettivi di potere e la logica “globale” che i movimenti jihadisti, con implacabile spirito totalizzante e totalitario, adottano.
Certo, della modernità e del carattere globale del mondo contemporaneo essi detestano e combattono aspetti determinanti: il segno e l’egemonia “occidentale” e la possibile e tendenziale diffusione dei principi di laicità, pluralismo etico e religioso, convivenza democratica. E sono convinti, come più volte è stato sottolineato, che l’antidoto alla diffusione ed al contagio di quelli che per loro sono autentici veleni culturali e spirituali possa essere trovato in un mitico ed evocativo rimando alle “origini”. Nell’illusione del recupero (e della possibilità di imporre) una purezza  identitaria che, come tale, non è mai esistita. E che è ben lontana dal coraggio della contaminazione culturale e dalla scioltezza intellettuale che storicamente ha fatto la forza di una civiltà grande ed originale come quella islamica.
Sul percorso storico del fondamentalismo islamista (termine, come non è  male ricordare, assai più corretto di “islamico” che allude, senza connotazioni politiche, alla semplice appartenenza all’islam) non è qui il caso di spendere molte parole. Ne parlano, con competenza, alcuni autori della nostra sezione monotematica ed esiste in merito un’ampia ed interessantissima produzione editoriale (5).
Mi pare opportuna un’unica considerazione. Relativa al ritardo con cui l’Occidente ha iniziato a superare la rimozione della percezione di quanto, ai bordi del proprio mondo, andava drammaticamente montando. Hanno ragione Luciano Ardesi e Giuliana Sgrena a ribadire, con la consueta chiarezza, che non si è voluto vedere. E non si è voluto capire. Chiusi in un’autolesionistica forma di eurocentrismo non ci si è voluti accorgere di quel che di rilevante e raccapricciante insegnava la tragica lezione algerina (6). Poi è arrivato l’ 11 Settembre. A seguire, la perversa illusione di Bush e la deriva ideologica dei “neocons” statunitensi, convinti di poter sconfiggere il terrorismo diffuso e reticolare di Al Qa’eda con la strategia della guerra preventiva.
Ed eccoci, dunque, all’impasse ed all’aggrovigliata situazione dei nostri giorni.
E’ tempo di tornare a pensare in profondità per cercare di penetrare una realtà sfuggente, ed altamente inquietante. A chi scrive è occorso di tentare di farlo per una via del tutto particolare.
Ed è di questo che qui si cercherà di dar conto, riferendo di una semplice esperienza intellettuale, che forse ha senso raccontare a scopo informativo e senza la pretesa di suggerire alcunché di decisivo e definitivo.

Islam, fondamentalismo, democrazia: una trilogia per capire
Parliamo, dunque, brevemente, di tre libri. Letti, con  curiosità e crescente interesse, in successione; e in un tempo (per quanto possibile in relazione ai consueti e troppi impegni) relativamente breve.
Tre libri non di saggistica né di analisi politica in senso stretto. Che non parlano troppo direttamente, né solamente, del tema che qui stiamo affrontando. Ma che, certo, contribuiscono, per vie insolite, ad aprire non pochi squarci di comprensione nella tela intricata di questioni in cui si avvolge il  controverso rapporto islam-fondamentalismo-democrazia. E che parlano, in maniera intrigante, di due grandi, diversi Paesi. Paesi inquieti, entrambi, ed ognuno a suo modo di “frontiera”, del mondo islamico.
Il primo dei tre libri l’ho incontrato per caso. Da una segnalazione appassionata di Adriano Sofri che parlava appunto di questo romanzo, Neve (7), e del suo autore, il turco Ohran Pamuk (paragonato, nientemeno, che a Dostoevskij per la sua capacità di misurarsi con i grandi temi del Bene e del Male).
Pamuk parla della sua Turchia narrando delle vicende emblematiche di un microcosmo. Un villaggio di confine, isolato dal resto del Paese e dal mondo da una lunghissima nevicata, avvolto e come rappreso nel gioco complicato e drammatico generato dal rapporto fra identità diverse: diverse per connotazioni etniche, ma anche per il riferimento a opzioni contrapposte. Come quella ancorata alla fedeltà al tradizionale ed atipico laicismo ereditato dal “padre della patria” Ataturk e quella, antagonista, che sente il richiamo delle nuove pulsioni fondamentalistiche e del gesto “esemplare” terroristico. A svolgere un’indagine di tipo giornalistico in loco è inviato il più inadatto degli investigatori: un poeta di nome Ka. Che finisce per badare più alle spinte del suo cuore ed alle storie d’amore che non al turbinio di vicende (talora assai aggrovigliate) che gli si snodano accanto. Ka è comunque turbato dal fenomeno centrale che anima di inquietante pathos tutto il racconto: il misterioso meccanismo che spinge ragazze, normalissime e “moderne”, che sono obbligate a togliersi il velo per accedere all’ università, al suicidio. Un suicidio che sa molto di monito e di metafora.  Di più non è qui il caso di dire: Neve è appunto un romanzo, che merita di essere letto e sfogliato senza indiscrezioni anticipatrici che ne rovinino mistero ed atmosfera. Non propone tesi, ma rimanda più di una (inquietante) suggestione.
Valga quel valga, in chi scrive ha indotto un’attenzione nuova, molto meno predefinita e schematica, per tutto quel che concerne la “questione turca” e l’ingresso di quel grande Paese nell’Unione europea (che così tanto impensierisce i leghisti nostrani).
Mi è venuto anche da riflettere, in maniera insolita, come talvolta la letteratura (o generi di scrittura atipici e non strettamente catalogabili) portino indirettamente a capire ed a penetrare, con profondità inaspettata, gli aspetti controversi del reale quanto, se non più, di quel che non contribuiscano a fare la produzione culturale e gli studi di carattere “specialistico”.
Gli stimoli aumentano mangiando. E’ un detto saggio che vale anche per l’appetito di carattere culturale. E’ dalla lettura del turco Pamuk che è maturata, repentina, la spinta a misurarsi, sempre nell’ambito dell’area e delle tematiche “islamiche”, con un’altra autrice ed un altro Paese. Con Azar Nafisi e con il suo Iran, di cui viene narrato in un testo atipico come Leggere Lolita a Teheran (8).
Leggere Lolita è il  corposo racconto di un’esperienza. Un’esperienza simile a quella di tanti giovani e studenti iraniani, appartenenti ai settori più elevati e colti della società, che, dopo aver studiato e soggiornato all’estero, sono tornati nel loro Paese dopo la rivoluzione di Khomeini. Una rivoluzione islamica. Anzi, per antonomasia, la rivoluzione islamica. Islamica e, appunto, fondamentalista. Solo che, in un primo momento, come molti ricorderanno, prevalse anche nella sinistra laica e marxista occidentale (e anche nella percezione di molti iraniani di sinistra) l’impressione che essa, sia pure sotto questa strana ed inedita veste ideologico-religiosa, fosse soprattutto una rivoluzione antiamericana e “antimperialista”. Dunque, da sostenere e da appoggiare. Molti di quelli che allora rientrarono con entusiasmo ne ebbero poi conseguenze drammatiche. O si trovarono, quantomeno, a malpartito. Così è anche per l’autrice che, nella sua attività di insegnamento di letteratura (e di letteratura occidentale, quella che veicola per definizione gli elementi di corruzione morale e intellettuale del “Grande Satana”) all’università di Teheran si deve misurare con le imposizioni, i divieti, le chiusure del nuovo regime. E che pure non rinuncia a parlare del Grande Gatsby o, appunto, della Lolita di Nabokov. A partire delle sue dimissioni dall’insegnamento pubblico, a causa di un clima da lei vissuto come irrespirabile soprattutto per le donne, Azar Nafisi finirà per organizzare una sorta di sua piccolissima “università parallela”. Analoga alle esperienze che pullulavano clandestinamente ad opera dei dissidenti dell’Europa dell’Est prima dello storico crollo del Muro nell’Ottantanove (9).
E’ commovente, e suggestiva, nella sua semplicità, la descrizione degli incontri del Giovedì mattina nell’appartamento della scrittrice che regolarmente riceve sette ragazze. Che con lei parlano appunto della “diabolica” letteratura americana. Ma soprattutto, con un privatissimo rito liberatorio, si tolgono veli e chador, bevono the e  mangiano pasticcini, sfiorano temi delicati come quelli della sessualità e dell’affettività al di fuori degli schemi imposti dal costume, dal pregiudizio e dalle norme etico-sociali dominanti. Tornano ad essere, fuori dal velo, individualità. Persone. E soprattutto donne.
Il tema della donna, della sua dignità e della sua libertà è al centro, anche, di un romanzo molto bello: un romanzo che è stato una rivelazione e che si intitola La grande casa di Monirrieh (10). L’ha scritto Bijan Zarmandili, un intellettuale e giornalista iraniano, che vive da decenni in Italia, lavora per “la Repubblica” ed è, anche, collaboratore di “Limes” e della nostra
Rivista. Bijan (che è stato intervistato anche per questa nostra sezione monotematica a proposito dei due versanti dell’islam: quello dialogante e quello integralista), di solito, si occupa con acume e finezza di analisi di politica internazionale, della questione mediorientale, del rapporto fra sfera civile e religione nel mondo musulmano. In questo suo libro parla, in fondo, degli stessi temi. Ma lo fa usando uno strumento nuovo: quello della narrativa. Il suo romanzo di esordio, che tale è La grande casa di Monirrieh, è scritto in un italiano fluido, semplice e scorrevole. Parafrasando il nostro Francesco Stella che di innesti letterari si occupa con competenza con la Rivista “Semicerchio , possiamo dire che c’è un “nuovo italiano” che dà buona prova di sé nel misurarsi con l’impegnativa “lingua di Dante”. Di che cosa parla La grande casa di Monirrieh? Dell’Iran, appunto, i cui costumi, tradizioni ed ambienti umani ci vengono presentati da Bijan Zarmandili con una profonda naturalezza intrisa, e sottilmente intinta, di nostalgia. Dell’orgoglio di un grande popolo di antica civiltà che l’autore, con passaggi leggeri, ci fa nondimeno avvertire in tutto il suo spessore. Delle sventure, dei travagli, dei complessi passaggi che il popolo dell’ Iran si è trovato a vivere nei decenni e nella storia più recente.  Sullo sfondo delle vicende de  La grande casa  di Monirrieh  ci sono, e sono ben inquadrati, i passaggi storici fondamentali della storia iraniana del Novecento: gli anni del potere di Reza Khan (singolare figura di sovrano-stalliere), quelli dell’occupazione anglo-sovietica, il periodo del “re dei re” Reza Pahlevi (della sua modernizzazione “occidentalizzante” e della sua famigerata polizia politica, la Savak) e, in conclusione, la cesura storica Khomeinista ed il periodo del successivo potere teocratico. Ma non è la “grande storia”, che pure è incombente, determinante e sempre presente, a segnare la trama del racconto. E’ la vicenda paradigmatica di una donna. Di  Zahra, la protagonista. Che muore mentre è in corso la violentissima ed insensata guerra fra Iran e Iraq e nella sua  incosciente agonia si riscuote dolorosamente, come se fosse disturbata o come se avesse paura, quando avverte il rombo del cannone o sente  i botti  dei bombardamenti. Zahra muore ed a cercare di ricostruirne, e restituirne storia, identità e memoria è la figlia maggiore. Che così verrà denominata per tutto il romanzo. I cui personaggi, in genere, non hanno un nome (vi si parla, infatti, del “marito di Zahra”, del “figlio all’estero”, ecc.). Quello di Zahra, come per dare il senso di un profondo bisogno di emersione di un’identità individuale e personale, è l’unico nome che campeggia nelle vicende che vengono, passo passo, dolorosamente ricostruite. Ha un nome anche il giovanile amore di Zahra: Eshagh. Un amore, che, con passione ingenua e con singolare spirito libertario, la giovane donna persegue infrangendo tabù e consuetudini della società in cui vive. Che prevedono il consenso ed il ruolo  determinante primario delle famiglie nella determinazione concordata dell’unione matrimoniale.
Zahra vorrebbe conservare un suo personale rapporto con la ritualità che solitamente consacra il vincolo d’amore. Ma quando se ne va, senza il consenso della madre e con il suo innamorato nella città di Isfahan a cercare la sua personale conciliazione fra felicità personale e tradizione, si rende rapidamente conto di quanto il suo sogno sia impraticabile. Ed è proprio l’evocazione improvvida del nome del giovane, che Zahra così limpidamente ama, ad evidenziare, in maniera immediata,  il distacco fra la cruda realtà ed un ingenuo ed eversivo progetto di libertà.
Il mullah,  da cui Zahra si era  recata per domandare benedizione e consiglio, “alzò la testa” per “guardare negli occhi l’inaspettata ospite” chiedendo: “Come si chiama lo sposo?” E di fronte alla tranquilla risposta di Zahra: “Eshagh (…) E’ di Hamadan, è un giovane giudizioso e appartiene a una famiglia facoltosa e onorata” sul “suo volto comparve una strana espressione: "Come Eshagh? Lo sposo non è per caso ebreo?" ” (11). Ecco, dunque, il punto. Il tema cruciale delle identità. Inconciliabili. Le nozze non si possono fare. Ed ecco, però, anche l’imprevista ed ulteriore ribellione di Zahra: “Zahra (…) aveva preso Eshagh per un braccio. "Non è il mullah che decide se posso o non posso amarti, se sono una buona musulmana o se tu devi rinunciare alla tua religione"” (12). Dopo una singolare, e struggente, sorta di  autocelebrazione del rito matrimoniale con la recita delle formule di rito in una camera d’albergo, Zahra ed Eshagh si amano. Zahra perde la sua verginità e perde anche la sua scommessa. Le pressioni familiari sono troppo forti ed il suo giovane amore, da subito, la abbandonerà. La protagonista rimane marchiata dal suo peccato originale, E’ una nanagib (una “poco di buono”, una donna non virtuosa). Ma non rinuncerà, non ancora, al suo indomito spirito di indipendenza. Zahra porta avanti la sua personale rivoluzione per la libertà e la modernità. La pagherà duramente e dovrà finire ripiegata su se stessa, ormai insensibile a quel che le avviene intorno. Mentre nel suo paese è al potere un regime “rivoluzionario” che ribadisce ancor più e rende indiscutibili i vincoli e i canoni a cui Zahra avrà finito per pagare un alto tributo di disillusione e di infelicità. E, tuttavia, la storia di Zahra non è, non è solo la storia di una sconfitta.  Zahra, figura pradigmatica, chiede di essere compresa, accolta, riscattata.
 C’è come un grido soffocato, eppur netto e deciso, che prorompe da questa figura, insieme così poeticamente e drammaticamente universale e antica (che rimanda al dramma  che spesso, in ogni epoca,  persone sensibili, libere e creative hanno dovuto subire ad opera del conformismo sociale e politico-culturale) e così fortemente “specifica”.  La trama raccontata, con semplice e drammatica linearità, da Bijan  rimanda infatti, con forza evidente, alla specifica condizione della donna nella società islamica (in cui il patriarcalismo è, spesso, elemento dominante). Una condizione di cui il fondamentalismo (quello al potere e quello “movimentista” che al potere vorrebbe, con ogni mezzo, pervenire) agita come una bandiera gli aspetti più drasticamente segreganti.

Ci sono insegnamenti da ricavare?
A questo punto, sarebbe probabilmente più saggio chiudere qui la breve disamina proposta.
Libri come quelli sopra indicati, per la loro stessa tipologia, parlano più per immagini ed emozioni che non tramite  le deduzioni dirette di un raziocinante e implacabile spirito “cartesiano” che voglia distillare idee  “chiare e distinte” anche sulle controverse vicende delle società e delle vicende umane.
Eppure, forte è la tentazione, in chiusura, di ricavarne qualche provvisoria considerazione. Proviamo ad accennarvi per capi sommari.
Punto primo: Pamuk, Nafisi e Zarmandili sono autori diversi (e parlano anche di due Paesi diversi, anche se entrambi di area islamica); ma tutti sottolineano, con la specifica forza del loro messaggio e della loro scrittura, la centralità della “questione donna”. E’ quel che dice, spesso, Adriano Sofri. Il tema della donna, della sua libertà, del suo corpo, del suo accesso alle prerogative (controverse, ma irrinunciabili) della modernità è, oggi, una delle questioni fondamentali sul terreno. E’, forse, l’oggetto principale di gran parte del conflitto e dello scontro in atto. E’ il tema che più inquieta, ed è, dunque, il fondamentale banco di prova del variegato mondo islamico.
Punto due: quel mondo, per l’appunto, è tutt’altro che omogeneo. Questi tre bei libri, ognuno a suo modo, veicolano questo concetto e questo messaggio. Vi sono, nelle società islamiche, contraddizioni, pulsioni, aspirazioni e dinamiche controverse e contraddittorie. E’ un mondo drammaticamente in movimento. Un universo, in cui, al di là di quello che appare, molto cova sotto la cenere. E’ un ambiente culturale che tende a presentarsi come compattamente serrato intorno ad un’identità comunitaria gelosamente rivendicata ed esibita. Ma, al cui interno, il tema dell’emersione (incontestabilmente, moderna) dell’individualità e della soggettività preme con forza. Quante Zahra, in quel contesto, cercano una loro strada per la libera costruzione del loro destino? Quante donne aspirano (come le sette ragazze del Giovedì mattina in casa Nafisi) a togliersi, anche solo per un po’, hijab e chador ed a porre apertamente il tema della loro realizzazione ed espressione personale?
Perfino le ragazze “tradizionaliste” e “fondamentaliste” che dominano la scena di Neve, nella forza drammatica con cui pongono la questione della rivendicazione di un’identità “chiusa”, spingendosi fino al suicidio, lo fanno con un protagonismo che esula dalla vecchia  e conformistica logica “comunitaria”. Anche l’islam, i nostri tre autori ce ne danno convinta conferma, va declinato al plurale. Non solo i Paesi islamici  sono connotati da una notevole varietà di sfumature; ma, all’interno dei diversi Paesi, le differenze sono molte. E non solo perché vi coabitano, al di là di quel che noi sappiamo leggere, i fondamentalisti e i tolleranti, le componenti tradizionaliste e quelle “modernizzanti”.

La voglia di democrazia
Sono presenti istanze e fermenti democratici in settori importanti di quelle società e di quei Paesi.
Qui ne abbiamo nominati due, diversi ed entrambi, in modo cruciale, importanti: Turchia ed Iran. Ebbene, in modi e per percorsi non comparabili, c’è in ognuno di questi due Paesi una forte voglia di democrazia. Che parte (come la lettura di Pamuk e Zarmandili fa intendere) dalla cultura, dalla sensibilità e dalle modalità particolare cui la loro storia ed il loro presente li predispone, non c’è dubbio. Ma che è, evidentemente, innegabile. E forte. Talmente forte da realizzare a Teheran e dintorni un paradosso evidente per cui “…mentre la maggior parte degli stati mediorientali vanta un’élite governativa filoamericana a fronte di una popolazione decisamente avversa, qui accade esattamente il contrario” (13). Una situazione apparentemente paradossale in cui, probabilmente, “antiamericanismo” e “filoamericanismo” sono soprattutto elementi indotti e funzionali ad esprimere l’insofferenza di una società avida di cambiamenti e di spazi di libertà nei confronti della forte “tutela” del potere. Quel potere “degli ayatollah” che non perde mai  l’“occasione  di rimarcare …la vera natura del Grande Satana americano” (14).
Naturalmente, sono realtà di cui non è bene perdere mai di vista il carattere complesso e contraddittorio: se “(…) infatti l’incontro con la modernità ha in un certo senso messo all’angolo i mullah, per contro lo shock che quella modernità ha comunque inflitto a tanta gente, finisce  per restituire loro un’importante funzione” nell’“Iran di oggi”  stretto “com’è  tra l’irruzione di un universo che invita al cambiamento, alla verifica empirica, all’uso critico della ragione e l’obbedienza a una tradizione fissata invece in una temporalità leggendaria..” (15). Non bisogna dimenticarsi, insomma, che c’è anche l‘“Iran arcaico e remoto dei villaggi” e che “in quell’ Iran remoto mullah e gente comune si intendono alla perfezione, perché vivono entrambi nella stessa epoca premoderna” (16).
E non bisogna, in generale, rimuovere il fatto che il fondamentalismo è la reazione (inaccettabile, quanto si vuole, ma corposa) del mondo islamico ad un fallimento storico. Come dice Bernard Lewis: “Il nazionalismo e l’indipendenza fallirono nel loro tentativo verso la libertà e il socialismo fallì in quello verso la prosperità (…) E’ qui che la religione diventa la strada da seguire, la risposta alle aspirazioni di riscatto di un grande mondo deluso” (17).
Un grande mondo deluso, le sue contraddizioni, il suo bisogno di risposte adeguate.
E’ su questo terreno che il fondamentalismo islamista (che non è l’unico fenomeno di questo tipo, ma che attualmente è quello che più minacciosamente e sanguinosamente si muove sul proscenio globale del mondo) ha lanciato la sua sfida. E, certamente, anziché nella riproposizione di analisi e politiche ancorate al fuorviante schema di uno scontro frontale fra civiltà ed inesistenti “aree culturali” omogenee e contrapposte, è prioritariamente su questo terreno che essa va raccolta.
C’è chi afferma (così Gilles Kepel, ad es.) che, per quanto aggressivo e minaccioso, il fondamentalismo islamista tale sfida l’avrebbe, in sostanza, già persa.
Su questo, ovviamente, c’è da discutere. A partire da un corretto inquadramento del tema generale dei fondamentalismi, delle responsabilità e degli errori dell’Occidente, del controverso rapporto fra islam, fondamentalismo e bisogno di democrazia. Problemi grandi come il mondo. Su cui la discussione più aperta e la riflessione critica devono continuare a mettersi alla prova. In tante occasioni ed a partire dagli spunti più diversi. Qui, attorno a temi così ardui , abbiamo  voluto semplicemente dar conto degli utili insegnamenti  di una personale trilogia.

1) Jean Francois Mayer, I fondamentalismi, Elledici, Torino 2001, pag.  13
2) Ivi, pag.14
3) Ivi, pag.14.
4) Ivi, pag.18
5) Qui ci limitiamo a rimandare al testo- relativamente recente e già segnalato da chi scrive nel “Tema” di “Testimonianze” n. 434- di Paul Berman, Terrore e liberalismo, ed. Einaudi, Torino 2004 (discusso e discutibile quanto interessante), ad un formidabile volumetto-testimonianza di alcuni anni fa (Rachid Mimouni, Dentro l’integralismo, Einaudi, Torino 1996) e al libro, anch’ esso di alcuni anni addietro, di Youssef M.  Choueiri, Il Fondamentalismo islamico  (Ed. Il Mulino, Bologna 1993).
6)  Sulla questione algerina non è male, forse, rileggere il bel libro intervista di Khalida Messaoudi, Una donna in piedi, ed. Mondadori, Milano 2001.
Sugli stessi temi ricordiamo anche il kit multimediale Algeria (della serie Afaq- Orizzonti, del CMSR e del COSPE)  contenente il volume, di AA.VV., Algeria, una questione di libertà  (stampa Csr, Roma 2001).
7) Ohran Pamuk, Neve, ed. Einaudi, Torino 2004.
8) Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, ed. Adelphi, Milano 2003.
9) V. in prop. la sez. monotematica (a cura di S. Saccardi) 15 anni dopo il Muro in “Testimonianze” nn.435-436.
10) Bijan Zarmandili, La grande casa di Monirrieh, ed. Feltrinelli, Milano 2004.
11) Ivi, pagg. 35-36.
12) Ivi, pag.39
13) Franco Marcoaldi, L’America vista da Teheran, “la Repubblica”, 1 Dicembre 2004
14) Ivi
15) Franco Marcoaldi, Noi donne di Teheran, “la Repubblica”, 3 Dicembre 2004
16) Ivi.
17) Fiamma Nirenstein (intervista a Bernard Lewis), Islam, la guerra e la speranza, ed. Rizzoli, Milano 2003

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