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Non solo Thanatos
(Testimonianze n.456/2007)

Vedi alla voce: amore. Era il titolo di un originale romanzo, dei primi anni ottanta, di David Grossman (1). Un titolo che qui parafrasiamo per sintetizzare gli intendimenti sottesi a questa sezione tematica della nostra rivista. Un lavoro, come sempre a più voci. Espressione di diversificate sensibilità. Che cerca di individuare delle risposte a domande fondamentali quanto, troppo spesso, inavvertite o sottaciute.

Pudicizia concettuale
Eccole, le domande: come è possibile andare oltre la negatività che sembra, tutti, oggi, avvilupparci? Esistono, e in che misura, oltre il sovrappiù di patologico (2) cui l’informazione dà ampio spazio, spinte, tendenze ed esperienze positive nella nostra società? E in che forma può essere rilevato quanto di buono, in termini di riferimenti, valori, esperienze solidali, riesce a farsi spazio nelle relazioni umane, interpersonali e sociali del controverso mondo di questo inizio millennio?
Interrogativi, davvero, non semplici. Non è facile, e non solo per una sorta di pudicizia e sobrietà linguistica e concettuale, parlare di “amore” (eccolo il riferimento arduo e impegnativo) in questo nostro tempo. Un tempo, se vogliamo dirlo con un’immagine, che potrebbe benissimo venir caratterizzato con la musica monotona e le implacabili parole di una vecchia canzone di Adriano Celentano: Il mondo in mi 7. “Apro il giornale e leggo che di giusti al mondo non ce n’è…”. Aprire il giornale. O guardare il TG. O cercare, come oggi è sempre più usuale, su Internet. Non è incoraggiante. Tra la fine dell’anno appena trascorso e l’inizio dell’anno nuovo il nostro paese e il mondo appaiono segnati dalla tonalità cupa impressa dagli avvenimenti che scandiscono lo scorrere dei giorni. Giorni in cui si odono notizie di cui non si vorrebbe sapere.
Continuano gli incidenti e le morti sul lavoro. Cadono, sul luogo di lavoro, in modo atroce, gli operai della Thyssenkrupp di Torino (3). Negli stessi giorni, l’irruzione violenta e imprevista della morte tiene il proscenio, oltreché nella nostra storica ex “capitale operaia”, nella sponda sud del Mediterraneo. Due gravi attentati scuotono la martoriata Algeri. Vi sono decine di vittime innocenti.
Al Qa’eda del Maghreb rivendica. Le modalità e le cause di fatti così diversi sono evidentemente dissimili. Ma vi è tra essi una comunanza che impressiona: se i nostri operai sono ormai “invisibili” (se non nei momenti della drammatica emersione legata ai più gravi incidenti sul lavoro), i martoriati cittadini algerini non fanno notizia. Delle vittime del terrorismo la stampa nostrana si occupa un giorno. Non di più. Come sempre, sembriamo non aver cognizione della volontà e della resistenza tenace con cui il popolo algerino fa, anche per noi, argine contro l’oscurantismo e il fondamentalismo armato.

Il 10 Dicembre
Intanto, però, ricordiamo, con regolarità, ogni anno, il 10 Dicembre, l’anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Che, nel 2008, fa 60 anni. E’ in quella Dichiarazione che sta scritto che, al di là delle latitudini, i diritti (civili, politici e sociali) devono universalmente valere. A partire dal basilare diritto alla vita. Non così vanno le cose, ai nostri giorni. Mentre continua lo stillicidio ed il quotidiano tormento della violenza nel disastrato contesto irakeno, veniamo invece ad apprendere le desolanti notizie (che rapidamente tornano, anche in questo caso, ad essere sommerse) di drammatici scontri in Kenya. Per non dire del Pakistan e del tragico assassinio di una donna-simbolo: Benazir Bhutto. Una personalità politica dalla storia controversa, il cui rientro nel suo paese è avvenuto nel segno di non poche ambiguità, che ha saputo però divenire il riferimento della parte più moderna del Pakistan: quella che si oppone, in ugual misura, al regime militarista ed all’estremismo fondamentalista.
Aggressività, logica della contrapposizione e pulsione di morte sembrano decisamente tenere banco in troppi ambiti e in troppi angoli del pianeta. Le contraddizioni non sono, peraltro, solo quelle di paesi, più o meno, lontani. L’Italia dei nostri giorni ha un volto stanco e logoro ed un’immagine di sé sfocata, slabbrata e lacerata. Come ha riconfermato un guru  della sociologia come Giusepe De Rita con la sua descrizione di un tessuto sociale apparentemente privo di collante unitario, di slancio ideale, di spinte solidaristiche. Aprire il giornale sui fatti domestici vuol dire, appena archiviata la dolorosissima pagina della Thyssen (ma non il tragico riproporsi delle morti in fabbrica o sui cantieri), leggere del volto di una città e di una regione bellissime, Napoli e la Campania, deturpate dalle montagne di rifiuti. Una situazione incresciosa e inverosimile. Meglio, “una tragedia”: come ha detto il presidente Napoletano. Una situazione di oggettiva e perdurante violenza che si ripercuote giornalmente sulla vita delle persone. Con le scuole chiuse. Con le malattie che si diffondono. Con l’aria che diventa insana. Con il numero delle morti causate da tumore, in vicinanza di discariche in cui di tutto è stato interrato, di cui solo ora si parla. Ed è violenza quella che dilaga negli scontri fra gruppi di cittadini e forze dell’ordine, chiamate a gestire una situazione esplosiva e surreale. E’ violenza, vile e proditoria, quella che si accanisce persino contro i vigili del fuoco.
E’ violenza quella che si scatena, in altre regioni (la Sardegna, nel momento in cui scriviamo), contro i carichi di rifiuti campani che il governo nazionale “per solidarietà” ha chiesto di accogliere.
La “monnezza”, da sconcertante e ingombrante dimensione di ordine concreto e materiale, rischia di assumere un drammatico valore metaforico. Rimandando ad un invadente immagine di lordura che tutta potrebbe sommergere. “Una tragedia”. Appunto.
D’altra parte, la negatività che colora le pagine dei notiziari non è solo quella relativa a temi di rilevanza sociale o ad episodi drammatici variamente connessi a contraddizioni di carattere generale.
Come quello, costantemente sul tappeto, del rapporto fra integrazione delle diversità culturali e sociali e sicurezza dei cittadini (si pensi al drammatico episodio dell’uccisione di Giovanna Reggiani).
C’è anche la patologia, di varia connotazione e di segno violento, che marca talora, in modo dirompente, angoli apparentemente insospettabili, e rispettabili, della quotidianità. E’ il tema del cosiddetto raptus, imprevisto, irruento, spesso omicida, che, in maniera repentina, travolge vite, persone e famiglie dall’aspetto ordinato (4).
La “cronaca nera” ha una rilevanza debordante. Basti pensare a nomi di luoghi legati a casi irrisolti di omicidio i nomi dei quali ricorrono e vengono riproposti alla nostra attenzione in maniera ossessiva:
Cogne, Garlasco, Perugia…. Episodi-limite e casi estremi che sono tuttavia, è dato da pensare, la punta dell’iceberg di una quotidianità malata.
Andiamo, dunque, a stringere sul punto che qui ci preme. In un quadro apparentemente uniformato da tonalità fosche e dal restringersi, nel “privato” e nel sociale, delle aspirazioni e della progettualità, come dar conto del molto di altro, e di incoraggiante, che pure esiste, rimanendo comunque aderenti alla sostanza e alla consistenza del reale? E come render giustizia e conferire valorizzazione adeguata ad esperienze, sentimenti, percorsi che possano essere di incoraggiamento per chi, testardamente, ricerca sedimenti di positività in mezzo alle asprezze e alle contraddizioni della vita e della società?

Un tema “improbabile”
E’ alla ricerca di qualche risposta, che partono e si snodano i ragionamenti e le riflessioni degli amici che, in vario modo e a partire da diverse ottiche, hanno fornito un contributo alla presente sezione tematica. Accettando un presupposto, apparentemente assai arrischiato, ed una, altrettanto azzardata, scommessa. Che possono essere racchiusi in due lineari, quanto impegnative, considerazioni. La prima: non è affatto una sorta di anacronistico snobismo, neppure in un contesto apparentemente “di ferro” come quello attuale, evocare e provare a trattare un tema “improbabile” come quello dell’“amore”. La seconda considerazione è la base stessa di questo nostro lavoro. Che tenta, non senza elementi di prudenziale circospezione, per dire dell’amore, di rinvenire parole e concetti adeguati ai tempi della complessità e del tormentato “mondo globale”.
L’Eros, depurato dalla povertà e dall’angustia dei riferimenti (e dai volgari fraintendimenti) in cui oggi è comunemente imprigionato, ci si ripropone con la forza di una suggestione che, fin dall’antichità classica, ha fatto da motore alla vita ideale e collettiva. Evocando aspetti unitivi di fraternità e convivialità e stimolando i cammini umani verso l’elevatezza dell’agire e del sentire. Per Platone, come sappiamo, Eros è un dio; figlio di abbondanza e povertà, è spinta propulsiva dell’anima, tesa a spingersi verso la perfezione ed a ricercare, a partire dalla dispersiva oscurità del divenire, frammenti dell’incontaminata luminosità e superiorità dell’essere. 
Per San Paolo (Prima lettera ai Corinzi), “senza l’amore” si è come “bronzo che risuona o cembalo che tintinna”  (1 COR ,13).
Per Dante, l’amore è forza cosmica, che tutto muove.
Forse, ha ragione Fabio Dei in un significativo passaggio del suo articolo, è possibile cogliere una significativa differenza, e quasi una lacerazione, che sembra essersi storicamente prodotta fra la “classica immagine” dell’amore, qui appena richiamata, e la percezione che se ne ha nella nostra contemporaneità. In una dimensione che è comunitaria, o tendenzialmente universalistica, nella prima accezione (che riconsegna il tema, per così dire, all’umanità tutta intera) e la visione, strettamente “privata”, cui si è soliti, oggi, richiamarsi. Sono, entrambe, dimensioni, ad essere sinceri, che una rappresentazione non dimezzata e non unilaterale di quel che solitamente chiamiamo “amore” tende, in realtà, ad avvertire come compresenti. Potremmo forse dire che è propria della forza evocativa dell’amore la capacità di rimandare ad una pluralità di spinte, di direzioni e di orizzonti di riferimento. Mi pare che, in questo, offra spunti assai indicativi Andrea Bigalli nel suo proporre una lettura ed una “didattica” del Cantico dei Cantici che è, insieme, “classica” e attualizzante. Vi confluiscono, giustamente, molti motivi: l’amore uomo-donna, la coppia, la famiglia (“regolare” o meno), l’amore fra “diversi”, ma anche i percorsi di solidarietà e l’impegno umano per la giustizia e la libertà. La ricerca individuale della felicità e di relazioni interpersonali appaganti potrebbe, in questo senso, potenzialmente e strettamente esser connessa con una più ampia e generale spinta verso la solidarietà all’interno di quell’unica “comunità di destini” che è ormai il mondo.
Vi è chi parla, in questo senso di comunanza, sostenendo che “l’individuo è intriso di relazionalità” e che “egli stesso contiene la collettività, in cui sorge e a cui tende” (5). La “comunanza” di cui qui si parla, che fa riferimento alla visione utopistica, oggi decisamente minoritaria, di un rigenerante “socialismo rivoluzionario”, induce a qualche importante puntualizzazione. Si tratta di un’istanza che può rappresentare un utile contravveleno. Soprattutto in un’epoca di esasperato individualismo, che poco ha a che vedere con l’ispirazione più elevata di quel liberalismo di cui esso rappresenta, piuttosto, un inconsapevole succedaneo. Ha però, ancora, ragione Fabio Dei a guidarci per mano attraverso le contraddizioni con cui le istanze di tipo “alternativo”, comunitaristico o solidaristico, devono oggi misurarsi. Per questo, vengono richiamate le esperienze, apparentemente limitate e “di nicchia”, che fanno riferimento ai gesti semplici della quotidianità, all’istanza del dono e della gratuità, ad un modo diverso di vivere, di relazionarsi e di consumare. Esperienze che, però, relegate in una pluralità di dimensioni “insulari”, sembrano ormai aliene dal voler proporre una nuova ingegneria o modellistica per la società nel suo insieme. Tentativi, incerti per quanto generosi, verrebbe da dire, di una navigazione orientata su bussole diverse da quelle che, nella società, vanno per la maggiore. Una navigazione che si autolimita in rotte non ambiziose per sfuggire a Scilla e a Cariddi. Al liberalismo selvaggio, certo. Ma anche all’errore drammatico dello statalismo totalitario che, per aver voluto imporre e dirigere dall’alto la gestione del lavoro e delle risorse umane, ha inferto colpi mortali all’idea stessa della “giustizia” nelle relazioni sociali.
Dopo il crollo dei “muri” novecenteschi e la fine delle ideologie del “secolo breve”, poco si è davvero riflettuto sulle implicazioni etico-antropologiche, prima ancora che economico-politiche, della fine del mondo e del modo di vivere che il “comunismo reale” aveva instaurato con l’obiettivo epocale di inaugurare una rinnovata umanità. Si è preferito lasciarsi tutto alle spalle, privilegiando la rimozione alla riflessione critica su quel che era stato e che molti (spesso in buona fede) avevano condiviso.
In questo senso, una riflessione importante è sviluppata, nella veste insolita del romanzo, in un bel libro di Cristina Comencini.

L’illusione del Bene
Un libro con un titolo significativo che ha, evidentemente, molto a che vedere con quanto andiamo qui discutendo. Il titolo è: L’illusione del Bene (6).
Protagonista del libro è un uomo, Mario (ed è singolare come l’autrice scelga di rapportarsi, con singolare maestria, con la rappresentazione dall’interno di una psicologia tipicamente maschile). Mario è un ex-comunista. Che ha vissuto come un trauma, prima sconvolgente, poi liberatorio, il terremoto dell’ Ottantanove. Sua caratteristica è quella di ossessionare amici, conoscenti, ex-compagni di partito, le sue successive partners, i figli, con domande inquiete e incisive sul senso di quel che è stato. Nei suoi ripetuti “perché?” (sul comunismo e sul consenso che i regimi ed i partiti ad esso ispirati hanno riscosso a lungo da parte dei tanti che così pensavano di scegliere politicamente il bene) c’è il rifiuto della cultura della rimozione. Quella rimozione di cui la sinistra ex-comunista rischia di rimanere psicologicamente, e comodamente, prigioniera. Mario i conti con il passato li vuol fare, eccome. Proprio per evitare il cinismo e per non precludersi la possibilità di poter continuare a coltivare qualche forma di speranza, non più ideologicamente connotata, per il futuro. Nel libro, si parla espressamente anche del tema dell’amore.In un “samizdat”, che riemerge dall’universo da incubo delle repressioni poliziesche e degli internamenti dei dissidenti all’interno del “socialismo sovietico”. Un “samizdat” in cui una donna perseguitata si rivolge ad un ipotetico “compagno occidentale. “(….) ti scrivo- vi si legge- e spero che queste mie parole, che hanno un senso per me, ti raggiungano”. Dopo aver rimandato a quanto vissuto ed amaramente appreso nell’“ospedale, ma anche prima nel carcere dei nostri giorni familiari”, l’autrice (il samizdat è infatti opera di una donna) afferma: “Se queste mie parole arriveranno a qualcuno (…) la mia testa non avrà lavorato invano. Preferisco parlare di testa. I sentimenti mi fanno paura, anche le passioni (…) Diffido, diffido del cuore, dell’ amore. L’amore che usano per cambiarti, per trasformare i tuoi pensieri, l’amore per gli altri, l’amore di chi ti vuol salvare, l’amore di chi ti dà la vita, l’amore di chi te la riprende in nome dell’amore universale. L’amore mi appare un altro modo di dire odio”(7).
Una conclusione che pare evocare i temi e i drammi della rovesciata “neo-lingua” di orwelliana memoria. L’ amore che diventa odio. L’assolutizzazione ideologica dell’“amore” per l’umanità e del suo perseguimento politico che dà vita, in una perversa e combinata degenerazione dei fini invocati e dei mezzi usati, alla catastrofica “illusione del Bene” che così drammaticamente ha permeato le vicende del Novecento. Che le vie dell’inferno (o meglio degli inferni storicamente realizzatisi) siano pavimentate di buone intenzioni (o di visioni del mondo che come tali si sono autorappresentate) è una gigantesca e tragica evidenza di cui occorre far memoria.
Anche l’amore ha bisogno di sobrietà, si direbbe, e delle opportune mediazioni nel relazionarsi con quegli stessi che si vorrebbero beneficiare. Altrimenti può tramutarsi nel suo contrario.
La lezione dei nostri “anni di piombo” sta lì a ricordarcelo. Ci sono giovani, intenzionalmente generosi e proiettati verso la dedizione, in sé esemplare agli “ultimi” e ai “dannati della terra”, che, imbozzolata nella dimensione autoavvolgente dell’ideologia, li ha spinti a dare la morte e a seminare distruzione. Eros eThanatos si scambiano, in tali esempi, beffardamente e tragicamente, i ruoli. 

Se la violenza non ha l’ultima parola
Potremmo anzi dire che è un Eros in una sua malintesa versione, assolutistica e totalizzante, a generare pulsioni e azioni di morte (Thanatos). Sappiamo quanto male, da lì, si è prodotto. Ferite che tardano a rimarginarsi. Sono molte le storie, tragicamente paradigmatiche, cui potremmo far riferimento.
Le storie delle famiglie delle vittime del terrorismo e dello stragismo degli anni settanta. Molte delle quali sono raccolte in un libro significativamente intitolato: I silenzi degli innocenti (8). Qui vorremmo parlare del caso di Antonia Custra. Di cui dà conto, fra l’altro, Mario Calabresi, attuale inviato del quotidiano “la Repubblica” negli USA e figlio del commissario Luigi Calabresi, assassinato a Milano nel 1972, (9). Antonia Custra è una giovane donna oggi trentenne, figlia di un vice-brigadiere ucciso a Milano, nel 1977, durante una manifestazione. Del padre, come di tante delle vittime di quegli anni, sembra non rimanere nemmeno il ricordo: “C’è solo un nome, quasi sempre sbagliato. Niente di lui, niente di noi. A me basterebbe che quelle poche volte che mio padre è citato (…) non lo si facesse sbagliando nome e cognome: si chiamava Antonio e non Antonino, ci chiamiamo Custra e non Custrà”(10). Il padre, Antonia non lo ha mai conosciuto: “Morì il 15 Maggio dopo un giorno di coma e io sono nata il 1° Luglio” (11). E’ difficile, a partire da lì, fare i conti con la propria storia. Elaborarla. Superare un dolore originario, che ti distrugge dall’interno. Al figlio del commissario Calabresi, la figlia del bigradiere Custra racconta: “Due volte alla settimana vado dallo psicologo, passo dall’anoressia alla bulimia, ho problemi con il cibo, un vuoto che non riesco a riempire (…)” (12).
Eppure, è a partire da tale sofferenza, che Antonia, ad un certo punto, decide di imprimere una svolta alla sua vita. Aprendosi all’incontro con uno dei responsabili della morte del padre. E dichiarando: “L’odio non porta da nessuna parte (….) Per questo voglio incontrare (….) l’uomo che ha ucciso mio padre. Per capire, per riuscire a pensare che si può perdonare” (13). Una scelta dirompente. Di quelle che cambiano completamente prospettiva e senso delle cose. C’è una dichiarazione, che cito a memoria, in cui Antonia Custra dice addirittura: “Adesso sono piena di amore”.
Vedere alla voce: amore. Perché non è detto che la negatività, la pulsione distruttiva e la violenza, che troppo spesso la fanno da padrone, abbiano l’ultima parola.
L’amore ha le sue strade. Che, imprevedibilmente, in tempi lunghi, e senza clamore, possono essere individuate e percorse. Talora in maniera sommessa. E’ ancora S. Paolo a ricordare (1 COR, 13):
“L’amore è paziente, è benigno l’amore, non è invidioso, l’amore non si vanta, non si gonfia (…) non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità”.
Parole ed espressioni dagli echi profondi che, nei nostri tempi, di caduta dei miti (spesso fallaci) e delle ideologie, che potremmo tornare, laicamente, tutti, credenti e non credenti, a meditare.
Il valore di molte delle “buone pratiche”, che pure oggi non mancano, è forse proprio questo.
Questo è, ci sembra, anche il senso di esperienze come quelle raccontate da Davide De Grazia (che parla della vicinanza di padre Tarcisio Ciabatti agli indios Guaranì) o da Angela Lombardo Benedetti.
Esperienze non eclatanti, che cercano, però, nel concreto, di mantenere vive forme operanti di solidarietà. Come a dire: amore, che senza proclamare enfaticamente le sue ragioni e le sue generalità, si fa silenziosa ed operante quotidianità. Padre Tarcisio Ciabatti, che alla causa dei nativi americani ha dedicato la vita, in un suo passaggio a Firenze, è venuto a trovarci in redazione. E’ un uomo semplice che fa, senza parere, grandi cose. Nel suo parlare timido e incerto, ha fatto alcune importanti riflessioni. Alcune di carattere generale (sui diritti dei popoli indigeni, di cui anche Davide tratta nel suo articolo). Alcune, molto specifiche, di sapore vagamente “milaniano”.

Lapis e quaderni. E computer
Ricordando che per tutelare l’identità di “quella gente” (le comunità indios) bisogna non vederla o volerla congelata in una sorta di immota fedeltà alle radici. Al contrario: ci vogliono, ha invocato, lapis, quaderni. E computer (14).
Di “buone pratiche” ce ne sono (o ce ne sono state) più di quanto non si pensi. Nell’ambito del volontariato, dell’impegno sociale, del commercio equo, della ricerca e dell’impegno culturale. Bisogna, certo, evitare che esse rimangano chiuse in se stesse. Per questo è importante farne memoria (come nel caso ricordato da Mauro Sbordoni). Per questo è vitale, al di là e al di fuori di ogni suggestione neo-ideologica e di ogni ottica totalizzante, provare a riconnetterne il senso a prospettive di carattere generale. Ha ragione, in questo senso, Giuseppe Vettori a riproporre, in tempi di crisi profonda del rapporto fra istituzioni, partiti e società, il tema dell’“amore” per la politica. Tema nobile, imprescindibile e, quanto mai, attuale. Al contrario di quel che potrebbe sembrare.
Ma chi e come è possibile concretamente amare? E’ un quesito che si pone e che ripropone anche Adriano Sofri, nella sua interessante e impegnativa riflessione dedicata ad una domanda di fondo: Chi è il mio prossimo? (15). A chi e a quanti è possibile, utile e opportuno dedicare il proprio amore? L’alternativa posta è, apparentemente, secca: al mondo intero? Oppure, e solamente, al numero limitato di persone che Dio, o la sorte, a seconda dei punti di vista, ci hanno posto vicino e che, concretamente, ci consentono di incontrare ed, eventualmente, di aiutare?
Adriano Sofri affronta la questione prendendo a riferimento paradigmatico “due personaggi affini e distanti come don Lorenzo Milani e Alexander Langer” (16). E mette a confronto ed in relazione
L’“ansia, che in Alex era stata bruciante, di essere ‘tutto per tutti’ “ e la scelta di don Milani che “(….) restò fermo nella sua canonica sul Monte Giovi, nella sua scuola di quindici ragazzi, nella sua parrocchia di trentanove anime sparpagliate…” (17).
E’ una questione che forse solo la vita, o la propensione (o la vocazione) di ognuno, può indirizzare, se non a risolvere, ad affrontare produttivamente.
In linea di massima (ma mi rendo conto della problematica credibilità delle quadrature del cerchio, soprattutto se in sospetto di esser raggiunte a tavolino), è possibile sostenere che le due opzioni sono assai meno in contraddizione di quanto a prima vista potrebbe sembrare. E’ quanto anche ognuno di noi, nelle sue pur limitate esperienze, può intravedere. Dedicarsi con attenzione a chi ti è vicino o ti è affidato (nell’esperienza di chi scrive, nei non brevi anni di insegnamento, i propri studenti) non solo non preclude ad uno sguardo costantemente rivolto verso larghi ed aperti orizzonti (i “problemi del mondo”) ma riceve, probabilmente, dal riverbero di tale sguardo un’intensità ed una profondità diverse. Don Milani, dopotutto, a Barbiana faceva scuola con il mappamondo. E l’impegno su temi generali (“internazionalista”, si sarebbe detto una volta con una bella espressione rovinata, purtroppo, dall’abuso ideologico che ne è stato fatto) non impediva a quelli come Alex Langer (o analoghi per caratteristiche di fondo, come Ernesto Balducci) di avere momenti di concreta e specifica attenzione per i propri “compagni di viaggio”. “Ethos della vicinanza e della lontananza hanno un legame, se non dialettico, complesso e intrecciato” (18), certamente, e, nei riferimenti simbolici citati, “l’inflessibile prossimità di don Lorenzo e la sua tentazione (di Langer, n.d.a.) per ogni lontananza” (19) continuano a rimandere a strade e a suggestioni, realmente o apparentemente, diversificate. Ma, forse, cercare di tenerle insieme, o di riunificarle, è, oggi, la scommessa.
Cercare di giungere a delle sintesi nel mondo della complessità è impresa ardua.
Ma lo stesso autore di Chi è il mio prossimo, sia pure in un’ottica ovviamente, e del tutto, estranea ad ogni universalismo ideologico e ponendo questioni soprattutto “in negativo”, è di questioni di grande, anzi decisiva, portata che si occupa.
Lo fa, usando sapientemente suggestioni e spunti suggeritigli da due parabole evangeliche: quella del Buon Samaritano (rispetto alla quale Sofri sostiene che assai più che identificarsi con la figura del soccorritore meglio sarebbe riconoscersi nella vittima, calpestata e abbandonata) e quella del Figlio prodigo, di cui l’autore – non toscano di origine- scrive senza la “l” finale al contrario di come a me verrebbe spontaneo. Per alludere, essenzialmente, a che cosa? Al tema della responsabilità. Che dobbiamo esercitare- questa la tesi di fondo di Adriano- verso un “prossimo” di tipo particolarissimo.
Che non c’è ancora. E che, per la prima volta nella storia del mondo, potrebbe anche non esservi mai. Un “prossimo” di carattere globale, per così dire, rappresentato dalle future generazioni.
Il “principio responsabilità” (di Hans Jonas) è un riferimento implicito e pervasivo, talora espressamente richiamato, sia pure in forma problematica, nelle pagine del libro. Pagine, in non pochi punti, di sapore apocalittico che l’autore vuole invece ispirate ad un crudo realismo. E ad un laicissimo, e razionalmente motivato, invito alla “conversione”. Il mondo infatti potrebbe- questo il monito- non essere più disponibile, vivibile ed abitabile per le generazioni del domani se noi, oggi, esattamente come il figlio(l) traviato della parabola, non arriviamo alla consapevolezza di non dissipare più (è, questo avverbio, la magica parola che contiene in sé, rispetto a tanti nostri comportamenti, il senso del cambiamento). Non dissipare più i beni della terra. Non fare più molte delle cose che l’ideologia e la pratica del benessere, dell’avanzamento e del progresso ci hanno rappresentato finora come buone e desiderabili. E che invece hanno innescato logiche perversamente distruttive e difficili da correggere.

Essere responsabili verso “il tutto”
Tornare, non regressivamente e con rassegnazione, ma con consapevolezza, alla “casa del padre” (che è come dire ad un più equo e sostenibile modo di vivere) è lo scatto che viene richiesto agli uomini e alle donne del nostro tempo. Come scelta di amore verso un prossimo “virtuale” (ma fondamentale per la prosecuzione dell’avventura umana): quello costituito da chi al mondo non c’è ancora. Vi è implicito un modo impegnativo di concepire la nostra medesima libertà: “(…) questa libertà può (non dirò deve: per non dettare vincoli alle scelte personali) coincidere con la responsabilità (….) verso il tutto: la famiglia umana, il pianeta e il suo destino, il passato anteriore e il futuro remoto” (20).
Ne deriverebbero implicazioni, davvero, non da poco. Ha ragione chi dice che bisogna tornare, attualizzando le grandi lezioni del nostro passato prossimo (come dice G. Vettori), ad amare la politica. Ma è la politica, soprattutto, che di fronte all’enormità dei problemi che incombono e ce ci sovrastano, deve tornare a guardare, con interesse, curiosità e produttiva voglia di fare, al mondo.
Non so se alla politica si possa chiedere di amare il mondo, ma da essa si deve esigere che si assuma con responsabilità e realismo l’onere di governarne problemi e contraddizioni.
Certo, in questo senso, sono soprattutto le generazioni più giovani che devono entrare in campo e raccogliere la sfida. Bisogna che esse ricevano un buon viatico. Verrebbe, in questo senso, da essere tutt’altro che rassegnati leggendo del buono che, spesso, si sviluppa nel rapporto fra generazioni diverse e che Roberto Mosi descrive con il suo amore entusiasta di nonno. E verrebbe da dar credito a Giulio Mannucci che invita non solo a saper scoprire e valorizzare le forme nuove di amore per la cultura e per i saperi che oggi si manifestano ma, anche, ad aver fiducia nei giovani che vi si rapportano.
Dopotutto, non è male reagire all’“idea che i giovani siano più un problema che una risorsa per la società, per i molti episodi negativi di cui essi sembrano (…) rendersi protagonisti”, ridiscutendo “i luoghi comuni sulle nuove generazioni, che attribuiscono all’intera popolazione giovanile i tratti che sono solo della parte più disagiata e deviante”. Per rimettere “le cose a posto, denunciare gli stereotipi sui giovani” e far risaltare “la condizione ‘normale’ delle nuove generazioni (che proprio perché tale non attira i riflettori dei media)” (21).
E’ difficile, però, sottrarsi, all’impressione che, nella nostra società manchi “del tutto un’adeguata, puntuale, sistematica educazione all’amore” (22) rivolta ai giovani. Non ha probabilmente torto Andrea Bigalli a parlare, sia pure con tatto e garbo, della rilevante diffusione di una sorta di “analfabetismo sentimentale”. E fa meditare quanto Guido Gattai scrive sulla dimensione del Second Love. Si parla in relazione a tutto questo, evidentemente, della sfera “privata” dei rapporti interpersonali, che è un aspetto particolare del discorso che qui siamo andati affrontando.
Ma l’ipotesi da cui siamo partiti è, per l’appunto, quella della possibile ricomposizione della scissione, storicamente operatasi, fra una visione “ristretta” ed una dimensione ampia, e tendenzialmente, universale dell’Eros. Dunque, non si è fuori tema, e non si è a rischio di evocare le romantiche figurine di Peynet, nel porre la questione di un’educazione all’affinamento della sensibilità a partire dalla sfera (inter)personale. Non è una domanda del tutto illegittima quella relativa alla conciliabilità di una modalità “consumistica” nella gestione dei rapporti interpersonali e di quelli fra i sessi con l’adesione, in altri ambiti, ad azioni o a visioni di carattere umanitario o solidaristico.
Sono questioni rispetto alle quali, certamente, il vissuto ed il modo diffuso di sentire, nell’arco di pochi decenni, hanno subito clamorosi cambiamenti . E nel rapportarvisi, è difficile ipotizzare una qualche quadratura del cerchio.
Le cose, da un punto di vista completamente opposto rispetto alle considerazioni sull’attualità, non dovevano andare meglio prima della “rivoluzione sessuale”: in tempi di imperante repressione della spontaneità e di sconcertante disinformazione su tutto ciò che concerneva l’intimità sessuale e affettiva. Un clima che è ricostruito in maniera magistrale dal recente romanzo, Chesyl Beach, di Ian McEwan (23). Che è ambientato nell’anno 1962, poco prima che un vento potente di cambiamento (dalla musica dei Beatles alle marce pacifiste) investisse il mondo e la gioventù del tempo.

L’amore: una “potenza positiva”
Resta il fatto, se vogliamo approssimarci a qualche conclusione provvisoria, che non è retorico sostenere che l’amore rimane, in ambiti diversificati, una risorsa fondamentale per l’umanità.
E’ anche l’appiglio estremo contro la disperazione e la rassegnazione. La letteratura a volte ha saputo dirlo in un modo ineguagliabile. Dando voce ad un sentimento che è comune a diverse culture.
In un raffinato libretto di racconti dello scrittore giapponese Inoue Yasushi, intitolato proprio Amore (24), protagonisti del racconto La morte, l’amore, le onde sono un uomo ed una donna. Entrambi disperati. Che giungono, casualmente, allo stesso albergo con l’identica decisione di suicidarsi. La conoscenza e il dialogo fra i due aspiranti suicidi riapre una porta alla condivisione ed alla speranza. Il protagonista, aspirante suicida, sconvolto dall’imprevista irruzione dell’amore per la donna, come lui votata alla morte e, come lui, imprevedibilmente trasformata dalla relazione con un altro da sé, sul finale si chiede : “E se tentassi di vivere?” (25). A partire da un limite estremo, un interrogativo semplice e fondamentale la risposta al quale può confermare, non retoricamente, che l’amore qualche volta è davvero più forte della morte.
Bisognerebbe, certo, occuparsi del dramma dell’amore non ricambiato, negato e non riconosciuto che, invece, è spesso foriero di frustrazione, patologia, aggressività. Come accennavamo all’inizio.
Ma sarebbe un altro capitolo di una riflessione che, tendenzialmente, può evidentemente dirigersi per molte diramazioni.
Qui, in conclusione, vorremmo semplicemente richiamare, senza timore di ripetere un riferimento cui più volte ci è occorso di riandare, quanto scriveva Ernesto Balducci nella prefazione ad una riedizione del notissimo carteggio fra Freud e Einstein (26) sulla guerra e sulla violenza.
Diceva Balducci, ponendosi di fronte ai problemi più drammatici dei nostri tempi che, se Freud “fosse stato testimone della catastrofe atomica” si sarebbe forse spinto più avanti nella sua ricerca “senza vergognarsi di parlare con più sicurezza della potenza positiva dell’amore” (27).
Nel loro carteggio, come è risaputo, Freud ed Einstein, discutono della contrapposizione bipolare, che sembra segnare la vita e la storia umana, fra Eros e Thanatos. L’istinto di vita e l’aggressiva e distruttiva pulsione di morte. Ebbene, proprio a confronto con i problemi e drammi della nostra epoca, ci spinge a rilevare che, nonostante tutto, nel mondo non c’è solo Thanatos. E che oggi più che mai, fuori da ogni ottica ideologica e totalizzante e con il dovuto senso delle mediazioni storiche, sulla “potenza positiva dell’amore” bisogna avere la forza e il coraggio di scommettere.

1) David Grossman, Vedi alla voce: amore. L’edizione che qui viene presa a riferimento è quella degli Oscar Mondadori (Milano), 2007.
2) Una riflessione in proposito è stata sviluppata nella sezione monotematica dedicata alle Patologie del nostro tempo (a cura di S. Saccardi) , in “Testimonianze” nn.438-439.
3) Sulle morti della Thyssenkrupp e sull’attuale “invisibilità” del lavoro operaio, v. l’efficacissimo quanto impressionante articolo di resoconto e analisi sociale del direttore Ezio Mauro (Cosa è morto con i ragazzi della Thyssen) su “la Repubblica” dell’11 Gennaio 2008.
4) V. in proposito: S. Saccardi, Vedi alla voce raptus, in “Testimonianze” nn.438-439 cit.
5) Dario Renzi, La comunanza, Edizioni Prospettiva, Roma 2007, p. 86.
6) Cristina Comencini, L’illusione del Bene, ed. Feltrinelli, Milano 2007.
7) L’illusione del Bene, cit. pagg. 151-152.
8) Giovanni Fasanella, Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Ed. BUR, Milano 2006.
9) Dell’incontro con Antonia Custra, figlia, come lui, di una delle vittime della violenza degli anni settanta, Mario Calabresi racconta nel suo libro: Spingendo la notte più in là (ed. Mondadori, Milano 2007), pp. 21-30.
10) Spingendo la notte più in là, cit. pag.22.
11) Ivi.
12) Ivi, p.29.
13) Antonia Custra: voglio vedere l’uomo che ha ucciso mio padre (intervista a cura di Oriana Liso), “la Repubblica”, 18 Maggio 2007.
14) Per un approfondimento delle questioni legate all’accesso all’informatica come passaggio per l’acquisizione di diritti e di opportunità, v. Galassia Internet (sez. monotematica, a cura di Davide De Grazia, “Testimonianze” n. 452). Per quel che riguarda la valorizzazione della cultura e dell’identità degli Indios Guarnì, v. anche: Andrea Bigalli (A scuola dai Guaranì,“Testimonianze” nn. 453-454, sez. monotematica su La democrazia del nostro tempo).
15) Adriano Sofri, Chi è il mio prossimo, Ed. Sellerio, Palermo 2007. C’è una precisazione che chi scrive avverte come doverosa. Non sembri incongruo, in uno stesso testo, come quello qui proposto, dedicare spazio , insieme, a Mario Calabresi e ad Adriano Sofri. Non lo è, almeno per l’autore di queste note. A Mario Calabresi, come ricordato nel corso dell’articolo, è dovuta l’attenzione che va prestata a chi ha sofferto a causa della violenza insensata e del terrorismo. Per quel che riguarda Adriano Sofri, che è comunque, scrittore ed intellettuale di evidente valore, schierato apertamente contro le manifestazioni odierne del terrorismo, rimango soggettivamente convinto che la sua condanna per il “caso Calabresi” non sia suffragata da elementi convincenti (a parte la parola del “pentito” Leonardo Marino, che avrebbe però bisogno di riscontri sostanziali). Per quel che riguarda le responsabilità politiche e morali sue e di Lotta Continua in quegli anni, Sofri ha già pronuniciato, peraltro, parole non equivoche.
16) Chi è il mio prossimo, cit., pagg. 219-220. Sulla figura di Alexander Langer v., tra l’altro, il volume n442 di “Testimonianze” a lui dedicato (Alexander Langer traghettatore di speranza, a cura di S. Saccardi).
17) Chi è il mio prossimo, cit., pagg. 220-221.
18) Ivi, pag. 219.
19) Ivi, pag.222.
20) Ivi, pag. 276.
21)  Così si esprime Franco Garelli, recensendo il Rapporto giovani- Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione giovanile in Italia (a cura di C Buzzi, A. Cavalli, A. De Lillo), ed. Il Mulino, Bologna 2007, su “Tuttolibri” del 12 Gennaio 2008, in un articolo intitolato: I giovani “normali” non fanno notizia.
22) Da Platone ad Agostino- Il vero amore (a c. di Federico Cinti), Barbera editore, Trento 2006, Introduzione, pag. XI.
23) Ian McEwan, Chesyl Beach, ed. Einaudi, Torino 2007.
24) Inoue Yasushi, Amore, ed. Adelphi, Milano 2006.
25) Amore cit., pag. 116.
26) Sigmund Freud, Albert Einstein, Riflessioni a due sulle sorti del mondo (con prefazione di Ernesto Balducci, Ed. Bollati Boringhieri, Torino 1990.
27) Ernesto Balducci, Prefazione a: Riflessioni a due sulle sorti del mondo, cit., pag.17.

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