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Nel tempo delle solitudini. Uscirne da soli?
(Testimonianze n.462/2008)

Alla condizione esistenziale ed “ontologica” di solitudine dell’uomo si sommano, in ogni epoca, specifiche “solitudini” di origine “storica”. Come quelle connesse a condizioni di marginalità, esclusione, incomunicabilità e frustrazione sociale. Nel tempo, ambivalente, della “mondializzazione” si sviluppano nuove forme di comunicazione e fenomeni inediti di atomizzazione dei rapporti umani. E’ un contesto in cui la solitudine, oltreché come condizione di vita, si presenta come tentazione. Evitare la scorciatoia di “uscire da soli dai problemi”, già stigmatizzata da Don Milani , dovrebbe essere la scommessa di fondo della “buona politica”.

Sulla condizione di solitudine, esistenziale e “ontologica”, dell’uomo c’è poco da dire. Perché, nel tempo, moltissimo è stato detto.


In terra straniera
Si nasce soli. Ogni bambino “che viene al mondo è uno straniero in terra straniera, è giuridicamente un clandestino che sa di esserlo” (1). Si muore soli. “Quando si muore/si muore soli”, come  ci ha ricordato, con i suoi versi in musica, l’ineguagliabile menestrello Fabrizio De André (2).
E’ un tema, quello dell’irredimibile solitudine della condizione umana (che fonda anche il carattere unico e irripetibile del soggetto), che è da sempre al centro della riflessione filosofica e sapienziale, della dimensione mistica (che propone una via d’uscita dall’ isolamento esistenziale tramite la congiunzione estatica con il divino), della produzione artistica, poetica e letteraria.
Da Agostino, a Pascal, a Kierkegaard, a Leopardi, a Schopenhauer, a Dostoevskji, fino all’esistenzialismo moderno (con Sartre e Camus) ed alle corrosive riflessioni di E. M. Cioran (3), pur nella diversità delle impostazioni e delle risposte (o non risposte) esperite, la riflessione, lo spirito e il pensiero di grandi personalità si sono trovati a misurarsi, ed a scontrarsi, con tale, ineludibile, dimensione.
E’ vero, d’altra parte, che è proprio dell’essere umano, posto a confronto con la profondità ed il mistero della propria unicità e solitudine, ricercare e vivere l’esperienza della socialità.
I riferimenti sono classici, e conosciuti. Da Aristotele che, ricorda il carattere strutturalmente “politico” dell’animale-uomo (che, se vivesse nell’isolamento, sarebbe piuttosto una fiera o un dio), a Tommaso d’Aquino, ad Hannah Arendt. Che rivendica il valore dell’ “agire politico” come condivisione di parole ed azioni. L’antico Epicuro rivendicava, d’altra parte, il valore del “vivere nascosti”, ma dubito che, in questo caso, il “nascondimento” (come lontananza dal potere) possa essere inteso come sinonimo di isolamento. Che dovrebbe essere temperato dalle pratiche dell’amicizia e della convivialità. Non è forse attribuito allo stesso Epicuro il detto secondo cui “una cena solitaria è come un pasto da lupo” ?
In un diverso contesto culturale, è fatta risalire alla saggezza e all’ “illuminazione” del Buddha l’indicazione di una via che, affrontando di petto il tema della sofferenza e dell’inquietudine dell’esistenza, rinvia allo spegnimento della brama desiderante e alla fusione dell’individuo con la dimensione avvolgente dell’universo e del tutto. Una via che può essere individuata (secondo i nostri canoni “occidentali”) come risposta, in forma di una sua originale e radicale assunzione, al tema di fondo dell’ “solitudine” dell’uomo nel mondo.
Si tratta di un discorso, e di un excursus, che si potrebbero indefinitamente prolungare. Sono questioni antiche- l’uomo che è ontologicamente “unico” e solo e che, insieme, è “naturalmente socievole- che rimandano ad una riflessione e al perdurante dibattito su una polarità che hanno scandito il cammino delle civiltà e lo scorrere dei secoli.

In ogni tempo
Considerazioni di carattere generale a parte, va, d’altra parte, detto che ogni tempo ha, per così dire, le proprie “solitudini”. E’ profondamente vera, come altre volte mi è occorso di ricordare, la risposta del teologo “progressista” che, ai tempi del Concilio, per sfuggire alla domanda-trabocchetto dei giornalisti su “chi sono i poveri”, affermò: “Tutti siamo poveri, perché tutti dobbiamo morire”.
Ma è, d’altronde, vero che, nel tempo e nella storia, la povertà, l’esclusione e la marginalità sociale hanno il loro peso nel rendere precaria, fragile ed insicura l’identità e nel menomare la dignità dell’uomo. Stando al nostro tema, povertà e marginalità  sono spesso sinonimo di isolamento, disadattamento,  “minorità” sociale. Sono forme- al di là della condizione esistenziale, che tutti ci comprende e ci definisce- gravemente “aggiuntive” e complementari di “solitudine”.
Sono molte le specifiche solitudini del nostro tempo. Nella nostra sezione monotematica, gli amici che hanno cortesemente accolto l’invito di provare a declinare il tema, ne delineano alcuni aspetti e ne individuano alcuni volti.
D’altra parte- è una riflessione da più parti riproposta- viviamo in un’epoca che vive di un ingannevole gioco di specchi. Gli specchi, e le luci abbaglianti, della modernità (e, ora, della modernità “avanzata” o post-modernità del mondo “globale”) rimandano, spesso, riflessi ingannevoli o difficili da decifrare.
La “civiltà di massa” si è andata, da sempre, proponendo, ed affermando, con una doppia faccia.
Ha creato modalità ed occasioni inedite di comunicazione e di avvicinamento fra diversi ed ha prodotto, insieme e contemporaneamente, forme paradossali e brucianti di sperdimento, frustrazione ed isolamento. E’ già un classico il tema del solitudine delle folle e quello dell’individuo nella folla della società metropolitana. Le immagini e l storie dell’incomunicabilità fanno già parte della storia del cinema. Che, peraltro, come ricorda Roberto Riviello, è, di per sé, una forma ineguagliabile di socialità. Nell’ambito della produzione ed in quello della fruizione.
Anche la “società di massa” dell’età industriale, con le sue contraddizioni e la sua ambivalenza, è già, peraltro, alle nostre spalle. Viviamo un tempo, e un mondo, di ben più controverse, indecifrabili e radicali, ambivalenze e forme di complessità. Sulle pagine della Rivista ce ne siamo, a più riprese e in varie forme, occupati (4). 
Gli anni duemila registrano un’ulteriore accelerazione dei cambiamenti prodotti, con incisività e forza dirompente, dalla scienza e dalla tecnologia. In un orizzonte ed in quadro in cui si vanno modificando aspetti decisivi, confini e limiti  (un tempo ritenuti ““naturali”) dello stesso statuto biologico dell’uomo e della  natura. Del nascere del morire. Lo sottolinea Ines Testoni nel suo contributo sulla nuova dimensione in cui si colloca la “solitudine del morente”.
La “mondializzazione” , intanto, abbatte barriere, di carattere economico, ma anche di tipo culturale ed umano, creando una rete di rapporti ed interconnessioni in forma sempre più stringente e, fino a poco tempo addietro, inimmaginabile. E’ una tendenza di fondo che anche l’attuale, pur profonda e preoccupante, crisi economico-sociale (che ha, anch’essa, carattere globale) difficilmente rimetterà in discussione, o potrà invertire, nei suoi elementi e caratteri di fondo.
I cambiamenti, insomma, sono potenti e il mondo, pur tra crisi, sperequazioni e ingiustizie, va avanti.
Il pianeta, come si dice, è divenuto villaggio. Ma, nei recessi e negli angoli del “villaggio globale”, abbondano le zone d’ombra e la solitudine, in una molteplicità di forme e di situazioni, prende campo e avvolge nelle sue spire porzioni crescenti di umanità.

Incontro alla solitudine
Si allargano, al di là della strutturale solitudine di carattere esistenziale (e “metafisico”), cui fin dall’inizio  si è fatto riferimento, le forme di desolazione, di abbandono e le inquietudini di carattere “storico”. Che sono legate in maniera specifica alle contingenze, alle contraddizioni ed alla crisi della nostra epoca. L’ una e le altre- solitudine esistenziale” e solitudini “storiche”- si intrecciano e, va da sé, interagiscono e diventano, spesso, indistinguibili.
Resta, in ogni caso, che di solitudine ce n’è molta. Chi scrive, mi si permetta di dirlo così, l’ha incontrata. E può, per quel che vale, darne testimonianza.
E’ la solitudine dei carcerati, per esempio. Nel mio ruolo di Consigliere regionale della Toscana ho avuto modo di visitare quasi tutti i carceri della Toscana (in alcuni dei quali mi sono recato anche più volte). Ho avuto modo di visitare istituti penali e circondariali nel periodo pre e post-indulto.
Vi è stato un momento in cui le carceri si sono svuotate, tornando, però rapidamente (come è noto) a riempirsi. Le persone, recluse, che vi incontri, certo, hanno sbagliato. Hanno commesso reati più o meno gravi. Ma- l’ ho sentito dire ad un carcerato di Porto Azzurro- “ a chi ha fatto del male alla società, ed è giusto che paghi, va data anche una possibilità di riscatto”.
Chi vi arriva, nelle carceri, viene spesso da situazioni di marginalità e solitudine. E nuova solitudine, e angoscia, respira, in una spirale che non si interrompe, in celle sovraffollate come quelle del carcere di Sollicciano, alla periferia di Firenze.
Certo, a volte basta un niente per portare un tocco di solidarietà, di umanità, di allegria perfino.
Come è accaduto di sperimentare quando, assieme al collega ed amico Enzo Brogi, ci siamo recati
proprio a Sollicciano con il cantante Pupo. Che, con un tocco di apprezzabile sensibilità, ha detto che “tutto sbagliamo; poi c’è chi paga e chi no”. E, poi, per i detenuti, e con i detenuti, per un momento in festa, ha cantato l’ augurale: “Su di noi/nemmeno una nuvola”. Qualcuno, inevitabilmente si è commosso. La commozione era intensa anche nel parlatorio della sezione femminile del carcere di Pisa, dove siamo andati con la cantante Paola Turci. Le note di una bellissima canzone come “Paloma Negra” di Chavela Vargas, la voce di Paola, le note della chitarra hanno creato un momento di intensità che è difficile rendere a parole.
Ci sono, nelle carceri, detenuti (e chi scrive ne ha incontrati) che hanno commesso reati molto gravi.
Ma c’è anche tutto un deposito di umanità dolente, di giovani, tossicodipendenti, “extracomunitari”
(tantissimi: in molte situazioni, ormai la maggioranza della popolazione carceraria), di sbandati. Sono coloro che, dal carcere escono, dopo brevi pene, e continuamente vi rientrano. Persone con cui, nella provvisorietà della loro condizione (perfino di quella detentiva), è difficile tentare anche il recupero e il reinserimento. Vi sono casi-moltissimi- nei quali più che di carcere, vi sarebbe bisogno di servizi sociali. O delle famose, e mai attuate, misure e “pene” alternative al carcere.
Adesso, però, va per la maggiore l’idea che il rimedio sia semplicemente costruire più carceri. Quante, e fino a quando?
Vi sono, anche all’interno delle “istituzioni totali”, situazioni che danno, più di altre, tristezza.
Così è, ad esempio, nel carcere minorile. Il “Meucci” di Firenze, Enzo ed io, l’abbiamo visitato, un paio di anni fa. Ero il periodo natalizio. Vi andammo insieme ad un altro famoso cantante, Piero Pelù.
Anche se era inverno, era una bella giornata di sole. Tirammo, con i ragazzi reclusi, quattro calci al pallone e, poi, dopo aver visitato i laboratori e preso atto delle attività che vi vengono svolte, Pelù ha cantato. Volti giovani, già segnati e scafati (tutti, tranne uno, di “extracomunitari” o, comunque, stranieri), si fecero attenti. Intuisci, per un attimo, una possibilità di comunicazione e la promessa (quasi), o il miraggio, di un riscatto. Un riscatto che, per i più, non verrà. O che sarà, comunque, tutt’altro che automatico. Appena varcato il portone di questa struttura, che è, per loro, insieme, di segregazione e di protezione, verso quale destino andranno?
Quale sarà la sorte di giovani già così problematici e inquieti, di cui è spesso ignota la vera identità e l’ effettiva età (al di là di quella dichiarata, spesso inferiore a quella reale, per evitare di finire nel carcere “vero” anziché in un istituto minorile) ?
L’ultima visita, in ordine di tempo, che mi è occorso di effettuare, nell’ambito del percorso nelle strutture carcerarie della mia regione, è stata quella presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. Che è situato nell’edificio di un’ ex villa medicea, detta “l’Ambrogiana”.
La villa, che il Comune vorrebbe recuperare per restituirne la fruizione al territorio, è attualmente in uno stato di evidente degrado. Vi è l’idea di destinare, al momento di quel passaggio, i pazienti/reclusi ad un’altra struttura. Il Progetto è, però, ancora in alto mare. Nel frattempo, in questa situazione di lunga transizione, i reclusi vivono in ambienti sovraffollati (anche in sette-otto per stanza) o in stanze/celle più piccole, ma decisamente malsane. Il lavoro che, per alcuni anni, vi è stato impostato, molto in sintonia con la prospettiva del tendenziale superamento degli ospedali psichiatrico-giudiziari e con il recupero-reinserimento dei ricoverati (soggetti, comunque, molto problematico), è da valutare positivamente. Ma, complessivamente, si è in presenza di una situazione che stringe il cuore.
Quando, con i miei collaboratori, siamo ripartiti, nella vallata di Montelupo c’erano la caligine e un’umidità che penetrava nel corpo e nelle ossa. Ma il freddo che capitava di provare non era solo di tipo fisico.

“Si muore soli” (sul lavoro)
Non sono, però, solo le “istituzioni totali” (come il carcere) a presentarsi come affollati contenitori
 di “casi umani” e di solitudini. Anche i luoghi di lavoro, considerati un tempo come sedi della solidarietà e della maturazione di una consapevole condivisione della propria condizione (la “coscienza di classe” del vocabolario marxista) sia pure in un contesto segnato dalla fatica e  dallo sfruttamento, sono oggi contraddistinti, sempre più, dalla atomizzazione e dalla frammentazione.
E’ il “nuovo” mondo del lavoro (5), che vive la logica implacabile del subappalto, delle piccole e piccolissime imprese e dell’uso frequente di una manodopera giovane d’età, povera di esperienza e refrattaria alla sindacalizzazione. Uomini e donne che, pur operando fianco a fianco, sono spesso in una dimensione di desolata solitudine, esposti alle capricciose e beffarde logiche del tempo della precarietà, alle indicazioni perentorie dei datori di lavoro ed alle conseguenze della loro stessa inesperienza. Di questo ci parla il ripetersi di gravi incidenti sui luoghi lavoro, di infortuni sui cantieri, delle “morti bianche”. Una sorta di drammatico rosario che continua a sgranarsi, giorno dopo giorno, facendosi beffa di controlli (forse insufficienti), di normative, di appelli all’acquisizione di una nuova e più matura “cultura della sicurezza”.
Formare una “cultura della sicurezza”  non è semplice, mentre nei cantieri si saldano insieme  ( in un certo senso, un po’ come nelle carceri) la nuova “questione sociale” e la “questione interculturale”.
Si concentrano problemi legati allo sfruttamento e a realtà di isolamento individuale e di scarsa professionalizzazione, ma anche questioni di carattere linguistico,  culturale, di mentalità (che rendono problematica la formazione alla sicurezza) sulle spalle di muratori e di manovali, giovani e stranieri, gravati talora da condizioni di lavoro inaccettabili e messi a rischio dalla loro stessa inesperienza.
Di “sicurezza sul lavoro” ( per dar conto ancora di un’esperienza personale) si è più volte occupato il Consiglio regionale della Toscana, a fronte spesso di notizie di drammatici incidenti, e ne ha discusso la “Commissione speciale Lavoro” (di cui chi scrive fa parte).
Talora, ci siamo recati anche sui luoghi di lavoro, per visite, ricognizioni, per un ultimo omaggio a chi, sul lavoro, è caduto.
Ricordo la visita ad una fabbrica della Piana fiorentina. Un giovane operaio era morto poche ore prima. Schiacciato sotto una lastra di metallo. Quella lastra che gli era stata fatale, in attesa degli accertamenti giudiziari, era ancora lì, nel cortile della Ditta. Che era chiusa ed avvolta in un silenzio raggelante. Anche quella volta, nonostante fosse una bella giornata, ho provato una sensazione di freddo. Un freddo molto intenso, e molto “interno”.
“Quando si muore/si muore soli”. Chissà com’è la solitudine di chi, ancora giovane, muore all’improvviso nel luogo dell’impegno e del sudore per il pane quotidiano.


L’immigrato necessario e l’immigrato invisibile
 Anche al di là di questa dimensione estrema, l’elenco delle solitudini di carattere “storico”, specificamente riferibili alla nostra epoca ed alla nostra società, delle solitudini del nostro tempo (che sono al centro dei contributi di questa sezione monotematica) sarebbe, certamente, lungo.
Si sovrappongono fra loro , le condizioni di solitudine. Quella del carcerato o quella del lavoratore soggetto alla precarietà e al dramma dell’insicurezza fisica si intrecciano, spesso, o coincidono, come chiariscono le statistiche e le narrazioni di una molteplicità di storie o di infiniti rimandi a destini individuali, con quella del migrante (6).
E’ una società, la nostra, come non è male ripetere, che ha un bisogno stringente di immigrati. Sia dal punto di vista economico (per  mansioni cha da noi non si è più disponibili a svolgere:  quelle di manovali, operai agricoli, raccoglitori di pomodori e frutta, conciatori…); sia in ambito  sociale e assistenziale (con il sostanzioso apporto dell’esercito di badanti addette agli ingrati lavori di cura); sia in ordine al riassestamento della “questione demografica (con l’apporto di forze giovani e di un congruo numero di nuovi nati in un contesto in cui si è vicini alla “crescita zero”).
Di forza-lavoro immigrata c’è disperato e costante bisogno. Ne danno evidenza le piccole industrie del  sempre citato Nord-Est d’Italia,  bacino elettorale della Lega Nord, in cui c’è una concentrazione elevata di lavoratori di origine straniera (spesso assai meglio inserita socialmente di quanto la profusione della chiacchiera ideologica “anti-immigrati” e le pulsioni xenofobe potrebbero far pensare).  L’ immigrato necessario potrebbe essere intitolato un dossier dedicato alla controversa questione. A cui ne andrebbe, però, immediatamente, aggiunto un altro, complementare, intitolato:
l’immigrato invisibile. I migranti sono destinati a divenire, in maniera sempre più stabile e costante, una presenza abituale nelle nostre città, inevitabilmente votate ad un destino sempre più sfaccettato e multiculturale. Ma la loro visibilità, la loro immagine, fatta di modalità di vita, per apparenza e sostanza, diverse dalle nostre, irrita, disturba e impaurisce.
La vita del migrante, e la solitudine del migrante, si sostanziano di questa snervante dialettica di presenza e nascondimento. Una vita all’insegna, e all’ombra, di un’identità negata.
Cambiano volto, le nostre città.La loro fisionomia, spesso, non è più riconoscibile. E’ una constatazione che è, letterariamente,  ben esposta nel bel libro, di  Margaret Mazzantini, Venuto al mondo. In cui, la protagonista-narrante, dando voce alle riflessioni dell’anziano padre (che, prima “di salire da noi passa al mercato qui sotto”), scrive: “E’ l’ultima parte buona della città, dice, l’ultimo avanzo di una umanità che ancora vive insieme. Il resto è solitudine” (7).
Una frase lapidaria, e incisiva. Il resto è solitudine.  E’ pervasa, la città, da forme di solitudine fra loro speculari e contrapposte. Allo spaesamento del migrante, che vive il dramma dell’identità misconosciuta e negata, si congiunge, in una dinamica prevedibile e perversa, il senso di spossessamento dell’ “autoctono” e del residente, che vive la sindrome dell’invasione del territorio e della perdita dei propri, consolidati, riferimenti culturali. La “guerra fra poveri” è una guerra fra solitari e fra solitudini. Ed è fatta a colpi di immaginario  (è l’immagine dell’ altro più ancora della materialità della sua presenza a preoccupare e ad impaurire) prima che di contraddizioni materiali.
Insicurezza, allarme sociale e paura sono, d’altra parte, sentimenti oggi diffusi. E lo sono anche perché nelle città sono sempre più numerose le persone che vivono, fisicamente, sole. Anziani, soprattutto. Che convivono, talora, con un senso di precarietà, di ansia per la loro sorte e di abbandono che sconfina, in non pochi casi, in forme di autentica depressione. Ma non solo gli anziani a trovarsi a vivere da soli. Numerosissimi sono i single, uomini e donne, che così vivono, a volte per scelta, più spesso a causa di matrimoni, relazioni, amori che si rompono e si sciolgono, depositando negli animi grumi di risentimento, scottature e scetticismo nei confronti dei rapporti umani.
La modernità avanzata è segnata dallo sconcertante avanzare di un’umanità frazionata. Procediamo (in senso  del tutto non leibniziano) verso una società di monadi? Le città più moderne sembrano, a volte, configurarsi come capitali della solitudine. Berlino, grande, scintillante e gradevole città europa, stando a cronache e statistiche, sembra essere la città europea con il più alto numero di single. E, a quel che si dice, con una quantità impressionante di agenzie matrimoniali e di centri per “cuori solitari”. A disposizione di divorziati, separati, uomini e donne con “fallimenti” sentimentali alle spalle in cerca di una seconda o terza occasione.
Ma, persone che vivono individualmente e materialmente sole a parte, il nostro modo di vivere sembra sempre più contrassegnato da interi settori della popolazione (e fasce generazionali e di età) incapsulate in forme inedite di ghettizzazione e fra loro reciprocamente incomunicanti.
Sono ghettizzati gli anziani (salvo quando ricoprono il ruolo funzionale di nonni dediti all’accudimento dei nipotini) che hanno vita mediamente, e fortunatamente, più lunga, ma sempre più problematica e difficile da riempire di senso. E, all’altro estremo del ventaglio generazionale,  i giovani  sembrano chiusi in una dimensione “loro”, punteggiata da uno sconcertante alternarsi di ordinate giornate feriali e di week-end segnati dalla cultura dello “sballo”, dal conformistico “spirito di gruppo” e dalla micidiale assuefazione all’uso di alcool e droga (8). D’altra parte, le stesse “generazioni di mezzo”, adulti produttivi e nel pieno delle loro forze, vivono, non di rado, un senso di inadeguatezza e di soffocamento nel doversi confrontare con il comportamento “incomprensibile”  di figli (  frequentemente, figli unici) che sfuggono ai loro schemi e con il peso della cura a genitori ed anziani di casa, longevi, ma spesso inabili o malati.
Il senso di inadeguatezza, nel nostro mondo, è pervasivo e diffuso. E’, esso stesso, in definitiva una forma ed una manifestazione della solitudine. Ci sente soli e incompresi nel proprio ruolo, tanto più se esso sembra, per definizione, deputato a curare i mali e le solitudini altrui. E’ solo (o così si sente), spesso, l’educatore o l’insegnante, il cui impegno e la cui dedizione non bastano a preparare chi gli viene affidato ad incamminarsi per le strade di una società complessa. E’ solo il prete o il “pastore di anime” (anche se l’amico Andrea Bigalli propone, in merito, argomentate ed ispirate controdeduzioni) che deve testimoniare la fede e l’amore del prossimo ad un’umanità segnata dallo scetticismo e dalla diffidenza per l’ “altro”. E’ sola, quanto “necessaria” come l’aria, la “buona politica” (di cui parla, in modo articolato e convincente, Vannino Chiti). Tanto sola che il “senso comune” è portato, disastrosamente, a revocarne in dubbio persino l’esistenza. Eppure, non ci era stato insegnato che “uscirne insieme” (dai problemi e dalla difficoltà della vita) “è la politica”? E che “uscirne da soli” (ecco un’altra interessante accezione e modalità della solitudine) “è l’egoismo”?
Parole di Don Milani, come si ricorderà. Che ha trovato il modo di parlare al mondo proprio nella solitudine e nella desolazione del poggio di Barbiana (9).  Paradossi, mistero e grandezza di un’esperienza, e di un’esistenza, in cui si condensano isolamento e sofferenza per le incomprensioni patite (ma temprate e accettate in nome dell’amore per “gli ultimi degli ultimi”, come Milani definiva il suo sparuto e privilegiate drappello di alunni-montanari) e singolare capacità di interpretare istanze e di lanciare un messaggio di portata universale.
Anche il nostro mondo contemporaneo (che ha, in forme diverse dai tempi del priore di Barbiana”, i suoi “Pierini” e di “Gianni”, i privilegiati e gli esclusi) è pieno, del resto, di paradossi.
Viviamo, giova ripeterlo una volta di più, nel tempo delle ambivalenze e della complessità.
Ed è forse il caso, come vorrebbe la saggezza popolare, di guardare alla metà del bicchiere pieno dopo aver preso atto, con piena consapevolezza, delle radicali brutture di quello mezzo vuoto.
La solitudine  non è l’unica e irrevocabile condizione della vita e della dimensione umana.  Ciò vale anche per le “storiche” ed inedite solitudini della nostra società. Che sono, spesso, giustapposte a forme nuove di incontro, di comunicazione e di convivenza.
Prendiamo il caso dei giovani. Il nostro (giovanissimo) Daniele Pasquini non ha torto a mettere in luce, accanto ai problemi enormi con cui deve confrontarsi chi oggi ha dai venti ai trenta anni, la ricerca di nuovi linguaggi, nuove forme di aggregazione, perfino, nuove forme di protesta civile che pure sono presenti nei movimenti giovanili, di cui si tratta di intendere, e di accogliere, le istanze.
Così, del resto, per alcuni settori di popolazione della cosiddetta “terza età”. Che dell’allungamento medio della vita (e dell’età pensionabile) fanno occasione di riscoperta della dimensione culturale, di un buon uso del tempo libero e di una benemerita dedizione ad attività di volontariato. Il nostro Roberto Mosi, impegnato in posizioni di responsabilità nell’ Auser, ne ha più volte parlato.
In termini generali, come abbiamo avuto occasione più volte di notare, è la condizione stessa del “mondo globale” a determinare forme brutali di esclusione e di frammentazione in ambito sociale, lavorativo ed esistenziale , ma a dischiudere anche a forme e potenzialità nuove di comunicazione di individuazione di “percorsi di cittadinanza”. Ecco una bella sfida per la “buona politica” . Che, certamente, è meno visibile e fa meno notizia di quella, purtroppo, fondata sui giochi di potere e sull’arroccamento autoreferenziale nei privilegi “di casta” (10). E che, pure, esiste.
Alla “bella politica” che produce atti di vicinanza e di solidarietà concreta è venuto, a molti, di pensare quando nella Regione di chi scrive, dopo il dramma di Gaza, sono giunti i bambini palestinesi destinati ad essere curati nell’ Ospedale “Meyer” di Firenze. Un’operazione, che ha un valore simbolico, oltrechè una validità concreta, in forza di relazioni internazionali che sono state costruite in anni di “cooperazione decentrata”. Una dimensione che conferisce un nuovo ruolo ed un potenziale protagonismo alla rete ed alla realtà delle comunità locali nell’ambito in una ridefinizione delle relazioni internazionali che (come aveva intuito Giorgio la Pira) si gioca al di là delle tradizionali modalità dei rapporti fra stati.La cooperazione internazionale e la cooperazione decentrata, incentrate sull’attività di enti locali, regioni, città, associazioni ed organismi non governativi, costituiscono un antidoto alla logica egoistica ed escludente prodotta dalla “faccia oscura” della “mondializzazione”. Una sorta di sfida, fondata  sull’impegno “locale” e proiettata sul piano “globale”, alla rassegnata accettazione di un universo popolato di solitudini.
Alla solitudine, del resto, anche in ambito esistenziale, non ci si rassegna. Ne è testimonianza la ricerca, talora ossessiva e defatigante, di “terapie”, lenimenti e percorsi di trasformazione per uscire da condizioni di frustrazione e di (auto)isolamento. In questo senso, molto interessanti, ed elemento di riflessione e di discussione,  sono le osservazioni di Neri Pollastri (derivanti anche dalla sua esperienza sul campo nell’ambito della “terapia filosofica”). Le domanda di fondo che viene posta non è di poco conto: è l’enfatizzazione (ma anche, verrebbe da aggiungere, la sottolineatura della “crisi”) individualistica del “soggetto” una delle radici dei mali dell’esistenza nel nostro tempo?
Anche se, forse, è bene non dimenticare che il riferimento alla dimensione individuale è anche alla base della cultura dei diritti ( di cui ogni, singolo, essere umano è, di per sé, titolare), non c’è dubbio che il recupero di una rinnovata dimensione della socialità sia uno dei temi potenzialmente all’ordine del giorno.
In ogni caso, è certo che rompere il cerchio chiuso della solitudine, è arduo. A volte, essa sembra avere la forza perversa di una sorta di destino o di vocazione e avvolgersi all’interno di un combinato indistinguibile di infelicità esistenziale e di  sensibilità d’animo.
E’ questo il motivo conduttore di un bel libro di successo come La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano. Hanno un singolare destino, i “numeri primi”. I quali “sono divisibili soltanto per uno e per se stessi” e se ne stanno “al loro posto nell’infinita serie di numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo più in là rispetto agli altri” (11). Hanno il loro fascino, i numeri primi. Per fortuna , nella tipologia del pari e in quella del dispari, ce n’è un’altra “infinita” varietà, che dischiude ad un’ enorme possibilità di combinazioni. E di incontri.
Il discorso potrebbe, su temi controversi come quelli qui accennati, allungarsi molto.
Mi piace concluderlo provvisoriamente con un riferimento che vuol essere anche una grande metafora. La solitudine non è solo degli individui. La patiscono anche le grandi realtà collettive: nazioni, popoli e stati. Perfino quelli (super)potenti. Così è stato in questi anni, per gli Stati Uniti d’America. Che, negli ultimi anni, hanno proiettato sul piano internazionale gli effetti, assai negativi,
della loro rivendicazione, insieme, della loro crisi di egemonia. La politica degli anni di Bush, del dopo 11 Settembre, della “guerra in Iraq” e dell’impostazione (sbagliata) della (giusta)  lotta al terrorismo sono stati anche questo. La messa in evidenza del disorientamento (e dei distruttivi errori politici) e della “solitudine” di una superpotenza.
Il messaggio, e la novità, della coinvolgente battaglia politica delle primarie democratiche, la travolgente affermazione di Obama e, perfino, lo “stile” del perdente McCain indicano la strada di un ritrovamento di sé. Il nuovo presidente parla di multilateralismo e di dialogo con il mondo.
Sembra voler interpretare il bisogno del suo popolo e guidare gli USA (v.  il “Tema” con le riflessioni  in merito di S. Siliani ) verso l’uscita dalla radicale, e altera, solitudine di questi anni. Produrranno i lori effetti la nuova consapevolezza, la politica della “mano tesa”, la volontà solidale di uscire dalla crisi? E’ presto per dirlo.
In ogni caso, questa singolare riproposizione sul proscenio del mondo della prospettiva e dell’ipotesi dell’ “uscirne insieme” non può che produrre nuovi impulsi, pensieri ed azioni. Ha un’evidente valenza simbolica. E  pare schiudere a nuovi, , più ariosi, e condivisi, orizzonti.


1)    Antonio Faeti, Contemplare l’incubo salva i bambini, “Tuttolibri” de “La Stampa”, 24 Gennaio 2009.
2)    Sono versi de “Il Testamento”, di Fabrizio De André.
3)    Tra i molti scritti di E.M. Cioran, si veda, in particolare, la raccolta di pensieri dall’emblematico titolo: L’inconveniente di essere nati (Ed. Adelphi, Milano 1991).
4)    Sulle ambivalenze e la complessità del nostro tempo, v., tra gli altri, i seguenti volumi di “Testimonianze”: n. 392 (con la sez. monotematica dedicata a Il fascino ambivalente del villaggio globale); n. 405 (con la sez. monotematica dedicata a Le parole chiave del villaggio globale); n. 438-439 (con la sez. monotematica- a cura di S. Saccardi- dedicata alle Patologie del nostro tempo).
5)    “Testimonianze” se ne era già occupata, anni addietro, con la sezione monotematica dedicata al “Pianeta Lavoro” (“Testimonianze”, n.393).
6)    V. in prop., nel n.342, di “Testimonianze”, la sezione monotematica dedicata ai Migranti.
7)    Margaret Mazzantini, Venuto al mondo, ed. Mondadori, Milano 2008, pag. 212. Il corsivo nel testo è dell’autrice.
8)    Sono i temi trattati nella sezione monotematica Generazioni a confronto, in “Testimonianze” nn.447-448.
9)    Nella sterminata bibliografia che potrebbe essere, ovviamente, richiamata su Don Milani, ci limitiamo qui a citare il recente Il segreto di Barbiana, di Frediano Sessi (ed. Marsilio, Venezia 2008).
10)    10 )V. in prop. il notissimo La casta, di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (ed. Rizzoli, Milano 2007).
11)    Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, ed. Mondadori, Milano 2008, p.119.

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