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La cultura dell'Aldila' e le nostre solitudini
Pubblicato sul "Corriere Fiorentino" martedi' 5 novembre

L’inizio di Novembre è  dedicato al ricordo dei molti che non ci sono più e che ci sono stati compagni di viaggio. Senza memoria, la speranza sembra non avere radici: nella vita pubblica e nella dimensione esistenziale. Una dimensione da cui, oggi,  secondo il card. Betori, viene rimossa ogni “meditatio mortis”. Confrontarsi con il passaggio della fine dell’esistenza non è mai stato semplice.  La Bibbia definisce la morte come “l’ultimo nemico”. E Gesù stesso, nel Getsemani, chiede se è possibile che passi da lui  l’ “amaro calice” della sofferenza e del trapasso imminente. Il tema della Resurrezione viene dopo e sembra non darsi senza quello della Passione. Il cristianesimo ha introdotto un orizzonte nuovo rispetto a visioni come quella dell’ antico Epicuro (uno dei primi grandi materialisti) che invitava a  star sereni perché “quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo noi”. L’epicureismo aveva una sua nobiltà di ispirazione. Nella dimensione immanente della vita esaltava l’amicizia,  la saggia amministrazione dei piaceri e la frugalità dei consumi. Oggi, più che una mentalità di tipo “epicureo” sembra  essersi diffusa una “cultura della rimozione” ispirata al “materialismo pratico”. Che è ben diverso dal materialismo riconducibile alla critica della religione dei  grandi “maestri del sospetto” come Marx e Freud.   E,  dunque, “come siamo cambiati”(Eugenio Tassini  “Corriere Fiorentino”, 23/10) di fronte agli “strappi del dolore”?
Affrontare la perdita di una persona cara  è, da sempre, un’evenienza dolorosa. Ma oggi in un mondo “senza più frontiere” eppure “con un orizzonte stretto e finito” l’attenzione sembra essere più concentrata sulla  difficoltà di elaborare la perdita  che non sulla pietà per chi se ne va. Se questo sia vero non so. Alcune considerazioni, comunque, si impongono.  Per  i credenti, intanto. Che  devono riflettere su modalità secolari di proporre l’ “oltre-vita”  con immagini più legate ai temi del peccato e della paura che non a quelli della speranza. Una speranza che (stando al Concilio ed a  lezioni come quelle di Simone Weil, Bonhoeffer o don Milani)  riguarda la costruzione di un “Regno” la cui configurazione “ultima” è intimamente legata alla realizzazione della libertà e della giustizia nella storia ed alla “fedeltà alla terra”.
Per Ognissanti, papa Francesco ha ricordato i migranti annegati in mare e la loro speranza di “un mondo migliore”. Eccola, la dimensione storica della speranza cui essere  attenti. Attenti, a partire dalla sfida delle solitudini del nostro tempo:  inclusa quella di chi, nelle nostre città, vive  i contraccolpi dell’età che avanza  in un contesto che il mutamento della demografia e la crisi del welfare rischiano di far assomigliare ad un deserto. Meritano attenta meditazione le considerazioni del card. Betori che rimandano ai temi del “fine vita”. Ma bisogna interrogarsi, oltre che sulla delicate situazioni  che si pongono sulla soglia del trapasso, sulle condizioni dignitose da garantire a chi sulla via del tramonto si sta avviando.
Vanno insieme,  la rimessa in discussione della  “cultura della rimozione” e  la promozione di una   degna condizione dell’esistenza
Il confronto con i "temi ultimi" fa parte di tutte le culture umane ed è questione  importante per credenti e non credenti. E mantenere un rapporto vivo con la memoria di coloro che ci hanno lasciato è parte integrante dell'umanizzazione della vita e della sua capacità di tenere aperte le porte al futuro.

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