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Vaclav Havel, rivoluzionario di velluto
pubblicato su "Il Nuovo Corriere di Firenze" sabato 24 dicembre

“Va pensiero” cantato da un coro di ragazze slovacche di fronte al Castello di Praga. Un grande motivo musicale proposto con l’immediatezza di un messaggio politico: il desiderio di secessione. E’ un ricordo, riemerso dalle immagini di un viaggio a Praga, cui a chi scrive è venuto di collegare la memoria di Vaclav Havel. Il periodo era di poco successivo alla “rivoluzione di velluto”.

Il presidente-poeta si era appena insediato e già il suo percorso si annunciava, politicamente, poco agevole. Poco dopo, Alexander Dubcek, simbolo e volto della “Primavera di Praga”, che con lui, dopo un ventennio di ostracismo politico, trionfalmente aveva salutato la folla dal Castello e che era avverso alla divisione dello Stato cecoslovacco, sarebbe morto in un incidente d’auto. La Slovacchia se ne sarebbe andata per suo conto; pacificamente, è vero, senza mattanze “jugoslave”. Merito, non da poco, da ascrivere alla condotta lungimirante di un amareggiato Vaclav Havel.

Chi era Havel? Una delle grandi personalità del controverso “secolo breve”, delle cui vicende si ha ormai poca memoria. Un’amnesia tendenzialmente letale per quell’ idea di un’”Europa ritrovata”, al di là delle contrapposizioni, cui uomini come lui hanno dedicato la loro esistenza.

Vaclav Havel, nell’ età del “socialismo reale”, non era che un “nemico del popolo”. Non solo perché nato in una grande famiglia intellettuale e borghese, espropriata delle sue proprietà dal regime nato dopo il 1948, ma soprattutto perché era ossessionato dal tarlo del libero pensiero. Un pensiero “divergente” che faceva di lui strutturalmente un uomo del dissenso. Originalmente

” dissidente” Havel, del resto, sarebbe rimasto perfino nel modo di ricoprire il ruolo di massima autorità dello Stato Ceco. Un “presidente-dissidente”. Un ossimoro vivente.

Aveva fatto una bandiera, d’altronde, del “potere dei senza potere”. La sua vena libertaria, che lo portava non solo a sfidare il regime comunista (ed a pagare per questo con anni di prigione), ma anche a criticare l’indifferenza etica e la chiusa dimensione del professionismo politico come elementi corrosivi delle stesse società democratiche, non derivava da una sorta di snobistico idealismo “anarchico”. Era legata ad una visione schiettamente liberale, democratica e radicale del rapporto fra politica e società.

Non c’è politica degna di questo nome se essa vive nell’indifferenza etica e non si cura del rapporto con la “verità”.

A differenza di Dubcek, Nagy, Michnik , Kuron, Janos Kis, spinti sulla strada del “dissenso” a partire da un’iniziale, e poi disillusa, adesione al comunismo, Vaclav Havel non aveva mai nutrito illusioni sul marxismo. Anche per questo le sue posizioni trovarono un assai tardivo apprezzamento in molti settori della sinistra occidentale. Che ancora oggi, al pari di gran parte delle classi dirigenti dei paesi democratici europei, avrebbe di che riflettere sulla sua lezione per ridare senso e vitalità ad una politica esausta.

(articolo pubblicato il 24 dicembre su "Il Nuovo Corriere di Firenze", nell'inserto "Cultura Commestibile")

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