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Un gesto di denuncia, non di resa: e' ora che la Chiesa cambi prospettiva
Pubblicato su "Stamptoscana.it" il 13 febbraio 2013

Si ha l’impressione che sulle dimissioni di Benedetto XVI tutto sia già stato detto. E si avrebbe voglia di rifugiarsi nel silenzio di fronte all’immagine ed al gesto di un papa che inaspettatamente rivelano al mondo la sua umana fragilità. Una fragilità che offre un’immagine insolita del “pastore tedesco”, talora indicato come vivente emblema del freddo rigore del cattolicesimo istituzionale, verso il quale anche non pochi critici si trovano, adesso, a provare inaspettati sentimenti di vicinanza. Sentimenti cui è riuscita a dare voce, con efficace semplicità, la cancelliera Angela Merkel, facendo riferimento alle insicurezze di una società, come la nostra, che è sempre più popolata di anziani. Anche in posti di altissima responsabilità. Ed è, per l’appunto, la lucida capacità di un uomo di età avanzata che si pone di fronte alla propria debolezza a venire, in questo caso, in primo piano. “Non ho più le forze per essere all’altezza del mio compito”, dice, con uno spiazzante candore, papa Ratzinger. Ed è quello spiazzante candore che farà da linea di demarcazione all’interno di una grande e millenaria storia come quella della Chiesa cattolica. La novità è epocale ed alcuni commenti fanno fatica, evidentemente, a coglierne la portata ed il segno. Troppo facile l’accostamento alla vicenda cinematografica dell’ “Habemus papam” di Nanni Moretti. Joseph Ratzinger, di questo gli va dato atto, non è stato subitaneamente sopraffatto, come l’inverosimile e spaurito papa di Moretti, dalla paura di misurarsi con un compito di così elevata responsabilità. Non è scappato. A governare la Chiesa ci ha provato, non solo in questi ultimi, otto, complicatissimi anni, ma anche prima (in ruoli, comunque, di grande rilievo). Naturalmente, si possono discutere (in modo anche molto radicale) le scelte, di carattere culturale, teologico ed anche “gestionale” da lui operate, ma questo è già un altro discorso. L’ “uscire di scena” in maniera così imprevedibile equivale, in ogni caso, come è stato sottolineato, più ad un atto di denuncia che ad una resa. Certo, si ritirerà nella preghiera, nello studio, nella meditazione o in ascolto dell’amata musica classica, il papa dimissionario, ma questo suo ritirarsi in un riservato e protettivo cono d’ombra ha, paradossalmente, più forza di un’invettiva nel mettere a nudo la “sporcizia” che ha offuscato, in certi ambiti, l’immagine della Chiesa. Un papa se ne va (senza lasciare la dimora terrena, in questo caso) e, come recita la smagata saggezza popolare, se ne fa un altro. Ma i problemi restano. Questo è l’implicito significato dell’insolito, quanto meditato, “addio” di papa Ratzinger. Un pontefice assai diverso (pur essendo stato suo stretto collaboratore), certamente, dal carismatico e “combattente” Giovanni Paolo II. Anche se, alla fine, entrambi si sono trovati (pur nel trascorrere degli anni e del rapido mutare dei tempi) a misurarsi con problemi tra loro assai simili. Finito il tempo del confronto con le ideologie e con le concezioni ateistiche (come quella, totalizzante, del marxismo o come quella di un certo esistenzialismo), che pure proponevano un’identificabile visione del mondo, le chiese cristiane (al plurale: non solo quella cattolica) e le religioni si sono trovate impreparate di fronte al “materialismo pratico” che lascia spazio al puro e semplice dominio dell’ “avere” ed all’ “idolatria” delle cose. La crisi, non solo economica, ma anche sociale, ed “antropologica”, che ha fatto soffiare un vento forte ed ha scompaginato il “mondo globale”, in questi anni, ha fatto il resto. Non è semplice parlare agli uomini ed alle donne di un pianeta sempre più interdipendente e, insieme, sempre più popolato di inedite forme di solitudine. Ci hanno provato, ognuno a suo modo, prima il “papa venuto dall’ Est” e poi il ricercato (e, spesso, incompreso) teologo tedesco che si è trovato a succedergli. Ma hanno entrambi, sia pure in modi ed in forme diverse, dovuto prendere atto del carattere, spiritualmente e culturalmente, ciclopico dell’impresa. Entrambi hanno dovuto fare i conti con l’inadeguatezza (per usare un eufemismo) di strutture ed ambienti del mondo ecclesiale in cui c’è più attenzione ad umane, e distorcenti, dinamiche di competizione e di potere che non a misurarsi, con autenticità, su temi e termini del confronto fra Chiesa e mondo. Torna spontaneo il pensiero, in questo passaggio ed in questi giorni, a quanto, più volte, cristiani e preti “di confine”, come Ernesto Balducci, sono andati sostenendo: che cioè non è più tempo che si guardi il mondo a partire dalla Chiesa quanto piuttosto che si guardi criticamente la Chiesa a partire dal mondo. E non per adeguarsi, come certamente non ha voluto intendere quel monito e quella lezione, alla “logica del mondo”. Al contrario, per poter annunciare a partire dall’interno e dalla condivisione delle miserie, delle contraddizioni, del travaglio dell’umanità contemporanea (e del suo diversificarsi di lingue, di stili, di sensibilità e di culture), il messaggio del cristianesimo. Come seme e come lievito. Come libertà e come speranza. Sono i temi, dopo tutto, che cinquanta anni fa, aveva declinato il Concilio Vaticano II. Che, sotto un grande “papa di transizione” come Giovanni XXIII e con un papa inquieto e dolente come Paolo VI, si confrontò con la grande sfida del rapporto fra Chiesa cattolica e modernità avanzata. Tra le tante questioni affrontate e fra i tanti “sentieri interrotti” tracciati dal Vaticano II c’era anche quello del rapporto fra autorità e libertà. Con questo, non con altro, si sono trovati a confrontarsi, con stili fra loro diversi ed incomparabili, anche gli ultimi due papi. Wojtyla e Ratzinger. Non è irriverente, credo, rilevare che entrambi (ed in questo senso è probabilmente improprio contrapporre la scelta di Wojtyla di rimanere, fino all’ultimo, sfidando il limite della sofferenza umana e quella di Ratzinger che, di fronte al venir meno delle forze ed al crescere delle contraddizioni, ha annunciato la sua storica rinuncia) non hanno avuto timore di rivelarsi, alfine, come “poveri cristi” pur se, e forse proprio perché, investiti da una così alta responsabilità. Hanno avuto in sorte, e forse, hanno avuto il merito, in forme diverse, di portare in luce una contraddizione. Quella di evidenziare, fino al limite estremo, le contraddizioni della Chiesa e le difficoltà di dialogo fra questa e il mondo. Che questo dialogo possa trovare forme nuove per esprimersi e per individuare sentieri nuovi e produttivi da percorrere è questione che è, oggi, comunque all’ordine del giorno. Tutti, uomini e donne di questo millennio, credenti e non credenti, non possono che prenderne atto con consapevolezza.

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