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Il golpe cileno: la memoria, la lezione, la speranza
pubblicato su stamptoscana.it mercoledi' 11 settembre

Oggi è il quarantesimo anniversario dell’ “altro” 11 Settembre. Quello  legato ai drammatici avvenimenti del Cile, che era allora considerato (nel bene o nel male, a seconda delle posizioni politico-ideologiche) un  paese-simbolo. Di quei lontani giorni ho una memoria nitida. La fine sanguinosa dell’esperienza di “Unidad popular” del presidente Salvador Allende (e la morte di quest’ultimo) erano al centro di commenti politici e di private conversazioni. Rammento, in particolare, quella avuta, al telefono, con  il compianto Luciano Martini, allora giovane direttore di “Testimonianze” che avevo conosciuto da poco. Faceva un collegamento, Luciano, fra le “tragedie mediterranee” (forti erano, anche in quegli anni, le tensioni in Medio Oriente) e quelle di una terra affacciata su un altro mare. Del generale Pinochet che aveva guidato il colpo di stato parlò (giocando sull’assonanza) come di un tragico “Pinocchietto”. Espressione massima di una componente dello stato (quella militare) che veniva meno alle sue funzioni istituzionali ed alla parola data. Mi è tornata in mente, l’amara battuta di Martini,  in questi giorni, vedendo sulla pagina speciale di un grande quotidiano, dedicata ai lontani fatti cileni , la  foto di un irrigidito e solenne generale Pinochet a cavallo che, al momento dell’insediamento, saluta  il neo-presidente Allende che sfila ina auto per le vie di Santiago. Augusto Pinochet era considerato dal presidente stesso un militare “lealista”, garante della fedeltà delle forze armate. Il “golpe” e la successiva durezza della dittatura si incaricarono di dimostrare quanto quella convinzione fosse ingannevole. Ebbero un grande impatto emotivo le notizie che, da subito, cominciarono a pervenire: i rastrellamenti di massa, lo stadio di Santiago usato come campo di concentramento, le sparizioni e le torture. L’Italia  fu uno dei paesi in cui la solidarietà con la sinistra cilena perseguitata, esiliata e dispersa fu più forte, sentita e diffusa.  A Firenze e in Toscana, come altrove, ci fu una vera ondata di iniziative, dibattiti,  cortei e manifestazioni (tra cui il concerto, famosissimo, degli Inti Illimani in Piazza Signoria). Occasioni in cui  la dimensione unitaria della protesta contro il “golpe” era, in realtà, segnata da visibili increspature e differenze di toni fra le diverse anime della sinistra nostrana. Che rimandavano alle diversità di valutazione sull’origine e sul senso dei drammatici accadimenti del Cile. Cos’era che aveva perso e portato ad una così tragica (per quanto eroica)  fine il socialista Salvador Allende? Era stato un eccesso di moderatismo e di prudenza che l’avevano frenato dal rendere incisivo il processo rivoluzionario (che così veniva, comunque, rappresentato pur nel rispetto del pluralismo democratico)? O non era stato piuttosto il fatto che le sue posizioni politiche erano pur sempre espressione di una minoranza  del suo Paese, che gli aveva permesso di diventare di strettissima misura (con il 36% dei voti) presidente del suo Paese, ma non di avere il consenso della parte più ampia della società? Un tipo di analisi, la prima, che era stata espressa, nel composito arco di forze che ad Allende davano sostegno, da una parte cospicua (e massimalista) del suo stesso partito, guidato da Carlos Altamirano e, in modo ancor più radicale, da gruppi come il MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria) che sosteneva la necessità di passare ad una vera rivoluzione fondata su “soviet” e consigli operai, sostenuta, se necessario, anche con le armi. “Il potere nasce dalla canna del fucile”, aveva del resto ricordato Mao Zedong (o, come allora si scriveva, Mao Tse Tung), con una tesi che trovava politicamente  molto ascolto anche presso i movimenti della “nuova sinistra” italiana che animavano i cortei pro-Cile con slogan che reclamavano “armi al MIR”. Di segno assai diverso (e mosse dalla considerazione dell’insufficienza delle alleanze su cui Allende e la sinistra cilena avevano potuto contare) sarebbero state  le posizioni , di cui più volte in questa ricorrenza si torna a far memoria, cui sarebbero approdati Enrico Berlinguer ed il suo PCI. Senza i fatti cileni, forse, la politica del “compromesso storico”, che ha segnato una fase importante della vita politica italiana, non sarebbe mai nata. O non sarebbe nata con la perentorietà e chiarezza di posizioni che a Berlinguer dovettero riconoscere anche molti dei  suoi più fieri oppositori. Non si regge e non si trasforma un Paese, pur se si conquista il governo, se si è minoranza nella società: questa era, notoriamente, la tesi di fondo che alla politica del “compromesso storico” faceva da basilare premessa. Berlinguer, anzi, come è noto, diceva assai di più: per governare non basta nemmeno avere la “semplice” maggioranza del 51%. Il che, secondo le regole liberaldemocratiche e la cultura dell’alternanza, sembrerebbe palesemente un’assurdità. Ma allora la cultura dell’alternanza, da noi,  non c’era, si viveva all’interno della bipolare “era di Yalta” e, in Italia, esisteva il più grande partito comunista dell’Occidente. Un partito che, pur essendo culturalmente assai più evoluto del “partito fratello” cileno (guidato da Luis Corvalan e caratterizzato, secondo uno schema tutt’altro che inconsueto, da una singolare miscela di moderatismo e di filosovietismo), aveva tutt’altro che reciso lo storico legame con Mosca. Dal  berlingueriano “compromesso storico” (ecco, dunque, che la “lezione del Cile” veniva ad avere un rapporto diretto con gli affari di casa nostra) non poteva che derivare un rapporto diretto con la DC.  Chi porta sulle spalle qualche anno (e un’inevitabile dose di memoria diretta) in più ricorda i dibattiti accesi e infiniti che da tale impostazione derivarono. Una discussione che investì non solo la sinistra, ma anche il “mondo cattolico”. In particolare, i movimenti e le realtà della “sinistra cattolica” che, proprio in quegli anni, avevano rotto il tabù (e l’obbedienza, in merito, alle direttive ecclesiastiche) dell’“unità dei credenti” attorno alla DC.  Anche “Testimonianze”, nata nel 1958 come rivista e strumento della cultura del dialogo, da quella discussione fu pienamente investita. E fece un certo scalpore che alcuni dei suoi più autorevoli esponenti alla politica del “compromesso storico” si dichiarassero sostanzialmente favorevoli. Lo stesso direttore Luciano Martini difese quella scelta in un lunghissimo (come allora si usavano nelle discussioni politiche) ed argomentato articolo ospitato sul “Manifesto” (che di quell’opzione era radicalmente critico), cercando di fornire, certamente, del “compromesso storico” una versione ampia, sociale e culturale, tutt’altro che banalmente riconducibile agli accordi fra partiti, fondata sull’intesa delle grandi forze popolari e, ovviamente, sulla valorizzazione  dell’irreversibile pluralismo politico dei cattolici.  In ambito cattolico, gli sviluppi dei “fatti cileni”, suscitavano risonanze e tornavano a versare sale su antiche ferite, che venivano impietosamente riaperte. Come potevano settori consistenti di fedeli della chiesa post-conciliare digerire la posizione di una parte delle gerarchie ecclesiastiche che alla dittatura di Pinochet  avrebbero, con gli anni, garantito un durevole e sostanziale appoggio? Una storia antica: nelle vicende del Novecento, non poche volte, autorevoli esponenti delle autorità ecclesiastiche avevano scelto di schierarsi con movimenti e regimi autoritari di destra in nome del contenimento del comunismo e del materialismo ateo. In Cile, c’erano, però, in larga parte del corpo ecclesiale, anche vistosi e lodevoli esempi  in senso contrario (come lo stesso cardinale Silva Enriquez, che difese finche poté i perseguitati dalla repressione). E, fin dall’inizio, il rapporto fra la chiesa cattolica e il regime fu, anche, segnato da tensioni e conflitti.  Ad appoggiare Allende, d’altra parte, non erano stati solo partiti e movimenti di consolidata radice marxista. C’erano anche (piccoli) partiti della sinistra cattolica, nati da scissioni della Democrazia Cristiana. Come il MAPU (Movimento de Acciòn Popular Unitaria) e l’Izquierda Cristiana. Ricordo il nome di un dirigente della Izquierda Cristiana, Luis Badilla Morales, esule in Italia, che era invitatissimo ai convegni. Un modo per i cattolici, oltre che per esprimere solidarietà al Cile, di dimostrare che si può essere credenti e di sinistra e per i marxisti di dar prova del proprio carattere dialogante ed antidogmatico. Lo stesso, si diceva, che aveva caratterizzato Salvador Allende. Che era rivoluzionario e democratico insieme. E che di quel binomio, di cui  era divenuto simbolo, era rimasto però tragicamente vittima. Cosa insegna, oggi, la memoria di quell’11 Settembre 1973? E’ solo l’occasione per rivisitare una lontana pagina della storia? O non ha piuttosto una sua calzante attualità?  Ad Henry Kissinger, che anni dopo non rinnegò la decisione degli Stati Uniti, cioè della più grande potenza democratica del mondo, di appoggiare i golpisti cileni come una sorta di provvidenziale “male minore”, fu attribuita una frase rivelatrice: “Si poteva forse pretendere che gli USA si facessero stringere in una sorta di sandwich comunista costituito dal Cile e da Cuba?”. Una logica ferrea e conosciuta, la stessa che aveva portato la superpotenza americana per fronteggiare il comunismo (che, nel frattempo, manteneva i terribili “gulag” concentrazionari ed usava i carri armati per reprimere le pulsioni democratiche di Praga e di Budapest) ad appoggiare alcune dittature di destra (Spagna, Grecia, Portogallo) in Europa e non pochi regimi infami nella stessa America Latina.  Non è, si dirà, d’altra parte, il fine che giustifica i mezzi, secondo un malinteso e cinico “machiavellismo”, che ha avuto largo corso nel tempo della “guerra fredda” e che, in altre versioni, è ancor oggi tutt’altro che desueto? Ma mezzi inumani e perversi finiscono, sempre, per distorcere e pervertire anche i fini che ci si propone di conseguire. Questo insegnano, in positivo e per contrasto, con la parola e con l’esempio, luminose figure come quelle di Gandhi e Tolstoj. E questo, in definitiva, l’immagine dell’ingiusta fine di Salvador  Allende  e la memoria delle repressioni cilene  ricordano  al travagliato mondo degli anni duemila, che di riferimenti coerenti e lineari alla cultura dei diritti umani, della giustizia e della libertà ha più che mai bisogno.

 

Severino Saccardi

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