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Il sessantotto fu anche una boccata d'aria fresca
pubblicato su "Corriere Fiorentino" il 13 febbraio 2018

Dividersi fra apologeti e detrattori del ‘68, cinquanta anni dopo, non è molto produttivo. E’ più utile cercare di inquadrare criticamente, in tutta la loro complessità, gli eventi di quel particolarissimo anno degli studenti (come lo chiamò Rossana Rossanda) che segnò comunque un passaggio d’epoca. Enrico Nistri («Corriere Fiorentino», 6 Feb.) individua acutamente quattro motivi per non celebrarlo. Tra questi, l’accusa di aver preparato «all’insegna della rivolta (…) contro i padri» un’«Italia senza figli». Ma il cambiamento dello scenario demografico è un fenomeno complesso di tutte le società sviluppate, che ha molte cause (mutamenti del costume, ma anche precarietà del lavoro e carenza dei servizi)  non ascrivibili solo alla «mentalità edonistica» dei baby boomers. Di critiche al ‘68 ne potrebbero essere fatte anche altre, relative alla visione totalizzante della realtà, alla scarsa sensibilità per l’«altro sessantotto» (quello dell’Europa dell’Est; v. Il sessantotto sequestrato a c. di G. Crainz, Donzelli), all’adesione acritica ad una cultura di tipo materialistico. Ma su questo vi sono non poche controdeduzioni: il ‘68 ha al suo interno una forte componente cattolica (Firenze è la città dell’Isolotto, di Ernesto Balducci e del  prete operaio Bruno Borghi); e c’è chi nell’anelito di futuro dei giovani del tempo (v. Rivolta dello spirito di R. Righetto, «L’Osservatore Romano», 5 Feb, opportunamente segnalato da «Buongiorno con l’edicola» di RVS ) intravedeva un bisogno di trascendenza. Tesi sostenuta da un teologo progressista di nome  Jospeh Ratzinger. E, qualche tempo prima, era stato don Milani, partendo non dal materialismo storico, ma dal Vangelo,  a sposare la causa degli «ultimi fra gli ultimi». Un messaggio che, nel ‘68, ebbe un’eco enorme. Un classismo rigido, certo.  Ma, in senso opposto, non era forse rigidamente classista l’Italia degli anni cinquanta e dei primi sessanta? La Lettera a una professoressa e la successiva contestazione degli studenti (che ne raccoglie e, parzialmente, ne fraintende lo spirito) toccano un nervo scoperto. Fino all’introduzione della Scuola media unica (nel ‘62), i figli dei contadini e degli operai, al massimo, si iscrivevano all’avviamento professionale. Un binario morto, senza prosecuzione verso studi superiori. E anche dopo sembrava improprio (come diceva una canzone-simbolo) che l’operaio volesse «il figlio dottore». Di ragioni e torti della contestazione si può discutere a lungo (un’occasione sarà la presenza di un protagonista di quella stagione, Mario Capanna, al «Teatro del Sale» il 13 Febbraio). Ma bisogna ricordare com’era la società di prima del ‘68. La Pira era considerato un «pesce rosso nell’acquasantiera» e, a livello di costume, si inquisivano gli studenti del «Parini» per aver scritto articoli sulla sessualità e si processava l’intellettuale Braibanti per «plagio». Non so se il ‘68 sia stato una «rivoluzione intra-borghese» (Nistri),  ma quel che è certo è che, allora, fu data una robusta spallata ad un mondo fitto di anacronismi ed ingiustizie. Poi vennero gli anni settanta, gli ideologismi e, perfino, la lotta armata. Ma il ’68, che non può essere incolpato in toto delle sue degenerazioni, rappresentò anche una boccata d’aria fresca. Don Milani (che con il’68 non va confuso) aveva un’idea dell’importanza della cosa pubblica che i giovani della contestazione ripresero in pieno (anche se in modo un po’ totalizzante). Diceva: «Uscirne insieme è la politica». Parole che, rilette 50 anni dopo, sembrano venire da un mondo lunare. Ma non è detto che questo sia un bene.

Severino Saccardi

(“Corriere Fiorentino”, 13 Febbraio 2018)

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