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Patria e' il mondo intero
Pubblicato sul n.128 de "Il Grandevetro"

Tra  gli elementi che concorrono a formare l’identità culturale di Ernesto Balducci, c’è  la figura-simbolo di David Lazzaretti. Ne parla lo stesso Balducci negli «scritti amiatini», curati e raccolti da Lucio Niccolai  ne Il sogno di una cosa (ECP, S. Domenico di Fiesole, 1993). La predicazione di David, una sorta di Gandhi «locale» ante litteram, rappresenta sia pure «confusamente, il segno di una possibilità che, se attuata, avrebbe radicalmente sovvertito la gerarchia dei privilegi» ( Ivi, p. 80). La figura di David è emblematica: popolano, di Arcidosso, partecipa ad un paio di guerre risorgimentali, ma, quando torna , non trova una vera ricollocazione nella comunità di appartenenza. Ha crisi mistiche e si converte ad un cristianesimo di fiammeggiante ispirazione sociale, mettendosi a capo di un movimento che impaurirà clero e possidenti locali, finendo poi ucciso, in camicia rossa e alla testa di una processione vietata, dalla fucilata di un regio carabiniere. Di Lazzaretti parla anche  Gramsci, che vede nel povero «Cristo dell’ Amiata» un simbolo delle contraddizioni dello stato unitario postrisorgimentale in cui per le istanze del popolo c’era ben poca accoglienza.  A partire dal significato tutt’altro che puramente «locale» della vicenda di Lazzaretti, Balducci conferma comunque, a scanso di fraintendimenti, che «l’unità nazionale è stata un evento positivo», che attende però «la ricomposizione  (….) degli elementi scomposti» (ivi, p. 72). Perché «per noi dell’ Amiata l’unità d’Italia ha significato la perdita della nostra identità (…) Occorreva creare un’unità spirituale del nuovo Regno attraverso l’espropriazione della memoria delle classi subalterne. E così noi potremmo avere la memoria di altri eroi (il ragazzino di Arcidosso sapeva chi era Enrico Toti, ma non chi era Lazzaretti)» perché «l’Italia era stata fatta senza di noi e contro di noi» (ivi, pp. 71-72).  Insomma, come per don Milani, sia pure in modo forse più sfumato, anche per Balducci, le vicende dei cento e più anni di storia unitaria del nostro Paese e il concetto stesso di Patria devono essere radicalmente e criticamente ripensati. Del resto, don Milani, Balducci e, per molti aspetti, anche  Giorgio La Pira sono accomunati da un’impostazione di carattere universalistico e cosmopolitico che, in certi ambiti del «mondo cattolico», viene da lontano. Illuminante è in proposito quanto sostiene Sergio Givone nel colloquio con chi scrive riportato (con il titolo: Quella voce forte come un tuono) nel volume speciale di «Testimonianze» dedicato a Balducci, Turoldo, Milani, preti «di frontiera».  Dice, Givone: « (…) credo che ci sia un tratto non solo religioso che lega questi preti, oltre appunto all’universalismo cattolico (…) Nel loro essere eredi , non so quanto consapevolmente, del cattolicesimo liberale (…) quel cattolicesimo liberale che è, e appare sempre più in tutta la sua forza, l’unico vero movimento che ha cercato di superare i nazionalismi (…) quello che niente meno viene fuori da Gioberti,  Rosmini,  passa attraverso  il cattolicesimo liberale novecentesco e sfocia proprio in Balducci con la sua idea dell’uomo planetario». E che cosa è l’uomo planetario se non «l’uomo la cui essenza non è nell’appartenenza a un popolo, a un’etnia, a un paese, a una nazione, ma è nella sua appartenenza al genere umano»? Essere cittadini del mondo: come sentivano di esserlo gli antichi stoici o come rivendicavano il socialismo nelle sue istanze internazionaliste e gli anarchici, per cui la «patria è il mondo intero». Ma qui, questa l’interessante lettura che ne dà Givone, la radice di tale impostazione è diversa.  E’ un’idea che viene «da Gioberti» e che impropriamente è stata intesa «in forma di teocrazia» , mentre « (…) Balducci aveva (…) capito che l’universalismo non è tanto della Chiesa, ma dell’uomo, dell’uomo planetario, che è il vero custode di questa vocazione». Naturalmente, è un’ interpretazione  che si potrebbe discutere, ma  che dà un contributo alla comprensione delle origini più lontane del messaggio di Balducci, che ha nel tema dell’ uomo planetario ( da non intendere come eliminazione delle differenze o soppressione delle identità) il nucleo fondamentale e lo spunto più originale (e radicale) della sua riflessione culturale.  Questo è, dunque, Balducci: che vede l’essere umano inserito in un'unica comunità di destini che si incardina, un po’ come per Gandhi, sul «villaggio» (cioè sulla comunità locale, della cui importanza egli aveva avuto esperienza nell’Amiata delle sue origini), sulla città (grande era , come per la Pira, l’attenzione alla «cultura della città»: (v. E. Balducci, Giorgio La Pira, ECP, S. Domenico di Fiesole,1986  e anche gli Atti del Convegno La sfida delle città, in «Testimonianze» nn. 304-306) e nella «casa comune » del pianeta.  E gli stati? Balducci, al di là del radicalismo delle sue posizioni politico-culturali, non aveva affatto una visione semplificata o schematica del problema. Da un lato,  analizzava ( in scritti come L’uomo planetario e La terra del tramonto) il processo di progressivo deperimento del potere degli stati nazionali nel «mondo globale» e, dall’altro,  fece in tempo a vedere, nell’ultimo scorcio della sua vita , l’insorgere dei nuovi nazionalismi e dell’uso politico delle contrapposizioni etniche (come nella ex- Jugoslavia). Era cosciente, nel percorso che, secondo la sua visione, dovrebbe portare ad una nuova coscienza planetaria, del ruolo che avrebbe potuto avere l’ accrescimento della democrazia all’interno della dimensione medesima degli stati. Non aveva scritto, d’altra parte (proprio in un suo magistrale testo intitolato La lunga marcia dei diritti dell’uomo, in «Testimonianze» n. 326) , che «la democrazia» è «ormai la vera via alla rivoluzione»?  Di questo,  avvalendosi di una cultura istituzionale che conviveva in lui con il «movimentismo», non mancava di dare attestazioni, sottolineando la valenza dell’architettura dello stato delineata dalla Costituzione e della sua configurazione repubblicana.  Che erano venute in seguito alla Liberazione ed alla Resistenza che fu (per usare le parole con cui egli si esprime, ricordando il  sacrificio dei «martiri di Niccioleta», i minatori amiatini fucilati dai nazisti) un «immenso, glorioso sogno di pace» ( Il sogno di una cosa, p. 53).   Dell’importanza di articoli costituzionali come il terzo (sul dovere della Repubblica di garantire pari opportunità ai cittadini) e, soprattutto, l’undicesimo (« L’Italia ripudia la guerra», vera base del «pacifismo istituzionale») disse e scrisse tante volte, con convinzione. Come per Milani, dunque, la critica culturale alla politica internazionale seguita storicamente dall’Italia dall’Unità in poi non era disgiunta dalla coscienza delle potenzialità (spesso, purtroppo, disattese) dell’assetto scaturito dall’unica «guerra giusta» , quella combattuta contro il nazifascismo.  Balducci  manifestò, sempre, anche una grande attenzione al «tema Europa». La sua critica serrata dell’eurocentrismo (cioè delle pretese di superiorità degli europei rispetto alle altre civiltà) non lo condusse mai a rimuovere il tema dell’identità europea.  Aveva presente (come viene ricostruito in «Testimonianze», n.514) l’ambivalenza dell’ Europa medesima: l’ «Europa che noi non amiamo» (quella della cultura della dominazione e del disconoscimento dell’altro) e l’ «Europa che noi amiamo» (quella della democrazia e dei diritti umani). Alla costruzione dell’ «Europa che noi amiamo» possono concorrere, in un processo complesso, i popoli, con la pluralità delle loro culture, e gli stati. Di questo Balducci parlò in un importante discorso, all’Arena di Verona, nel 1991. Ma ne aveva già parlato anche ai « Colloqui europei» di «Testimonianze» . E ne aveva scritto anche,  rivolgendosi ai giovani, in un bel libro di Educazione civica (scritto a quattro mani con P. Onorato, edito da Principato) che, tanto per non smarrire la prospettiva di fondo, aveva per titolo Cittadini del mondo.

Severino Saccardi

(“Il Grandevetro” n. 128)

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